No al carbone Alto Lazio

8 febbraio 2009

"OtherEarth - chi siamo"

Otherearth

Premessa: chi siamo; la crisi attuale

Programma: a) al servizio dei movimenti

b) nuova cultura energetica

c) contro il ritorno del nucleare

d) piano energetico regionale


Premessa: chi siamo; la crisi attuale.

Nell’autunno scorso, in occasione della Conferenza del World Energy Council tenutasi a Roma e della Conferenza alternativa Otherearth, abbiamo pensato fosse necessario dare continuità all’impegno lì profuso, per contribuire ad innestare una riflessione più consapevole e ampia sia circa la natura della sfida di fronte alla quale ci troviamo, sia nell’identificazione dei moltissimi problemi teorici e pratici, politici e sociali, culturali, che un intento di cambiamento investe necessariamente. Dunque, per concorrere ad alimentare un confronto meno episodico e più di lunga durata circa i processi di trasformazione dei modi di produzione e di consumo, di vita, che la crisi energetica e ambientale rendono urgenti. Se, poi, ad essa si sovrappone la crisi finanziaria ed economica mondiale che è esplosa così drammaticamente negli ultimi mesi (ma di cui da tempo vi erano le avvisaglie), diventa ancora più decisivo muoversi, pensare ed agire, per contribuire a quel rinnovamento della cultura della sinistra e a quella incisività nell’azione politica che si avvertono come necessarissimi e urgentissimi. Per un pensiero che si cimenti circa le caratteristiche moderne della questione sociale e di quella ambientale e che riconosca che il benessere interviene a prezzo di uno sfruttamento durissimo delle persone e dei beni naturali, e con un uso spropositato delle fonti energetiche fossili. Per cercare di orientare gli sviluppi della crisi a favore della pace, del lavoro, dell’ambiente.

Siamo sufficientemente consapevoli dei nostri limiti perché non ci sfiori minimamente la presunzione di poter essere in grado di intervenire nel presente vuoto. Ma di citarlo sì, e di insistere perché si intervenga, anche; sollecitando la sinistra a osare nel mare aperto delle contraddizioni moderne. Le difficoltà sono immense, e pur tuttavia affrontabili, e sappiamo benissimo che tanti altri, singoli studiosi e associazioni e movimenti e iscritti a partiti e non iscritti, si stanno cimentando su questi stessi temi. Noi, Otherearth, intendiamo porci alcuni obiettivi, che sono di seguito indicati, che chiariscono l’ambito della azione che ci ripromettiamo di compiere.

S’intende che il nostro è un programma, una ricerca, di critica della società, e non solo dell’economia capitalistica, nella forma moderna che essa ha assunto. Critica dunque degli stili di vita e anche delle mutazioni antropologiche indotte dal capitalismo, nel tempo, per fondare il consenso che lo sostiene e difende. I cui tratti essenziali restano la riduzione a merce di ogni aspetto della vita produttiva e civile e delle stesse persone; un gigantesco processo di abbattimento delle diversità e di omologazione che alimenta disuguaglianze sociali e distruzione della natura. Per questo riteniamo preziosa l’esperienza di tanti movimenti, soprattutto di quelli che si sono posti il problema della pace e della libertà, dell’ambiente e del lavoro e dell’eguaglianza delle persone, e crediamo sia di rilevante valore conoscitivo, teorico oltre che pratico, la nuova consapevolezza indotta in particolare dalla cultura e dalla lotta delle donne.

Perciò non possiamo tacere e dobbiamo polemizzare seriamente con la presunta modernità del riformismo politico italiano. Ci basta sottolineare la mistificazione contenuta nell’ideologia “del fare” contrapposta alle popolazioni, o a quelle parti di esse, che si oppongono a decisioni che, in nome di un soi disant progresso, manomettono alle volte irreversibilmente le condizioni di vita. Un uomo che dice no è un uomo in rivolta, sostenne Albert Camus, e siamo d’accordo con lui; se rifiuta tuttavia è perché non rinuncia: è un uomo che dice di sì fin dal suo primo muoversi. Ne ha abbastanza di una situazione, ritiene che sia leso un suo diritto oltre il tollerabile.

L’elemento distintivo e proprio del nostro impegno può definirsi in tal modo: programmare in modi non antagonistici con le caratteristiche degli ecosistemi; pensare ed avviare processi sociali che si muovano in sintonia con la natura (lavoro e natura sono il padre e la madre della ricchezza delle nazioni, secondo Petty, ripreso da Marx con l’affermazione del “ricambio organico con la natura”) e riflettere su come l’uscita dal colonialismo, dalla servitù e schiavitù, il rispetto per l’altro da sé, la comprensione che lo sviluppo può avvenire solo nell’intreccio delle esperienze differenti, di culture diverse aventi eguale dignità, implica un’uscita positiva dal caos del mondo governato dal profitto e dall’interesse dei più forti: verso un governo alternativo delle risorse naturali, democratico e rispettoso dei diritti dei viventi e delle leggi che reggono i cicli propri degli ecosistemi. Un governo il cui scopo sia quello di diminuire sostanzialmente il contenuto di energia e di materia (in primis dell’acqua) di beni e servizi assicurando tuttavia una qualità elevata della vita. Sembrerebbe una contraddizione, ma non lo è, si tratta del cambiamento del punto di vista, della adozione di un differente paradigma conoscitivo.

Il programma

a) al servizio dei movimenti

Il primo obiettivo è quello, dunque, di affiancare e sostenere i movimenti che intendono affermare il loro diritto di capire quel che sta avvenendo e di dire la loro. Per influire sulle decisioni.

Questa attività ci sembra cruciale per due ordini di motivi: la democrazia partecipativa e l’ignoranza tecnologica.

E’ evidente che la nostra è ormai una democrazia procedurale, nel senso che almeno le procedure debbono essere condivise perché la decisione non sia sentita come un’imposizione immotivata (meglio, motivata da interessi economici o politici che non debbono essere discussi e valutati). Le procedure consistono, generalmente, in informazioni sul programma o progetto messe a confronto con informazioni sul contesto nel quale sono destinati a inserirsi. Le une e le altre sono spesso difficili da reperirsi, sia perché il decisore le centellina e non conosce per nulla o solo parzialmente il contesto, sia perché le conoscenze della popolazione non sono state fino ad allora specificamente ordinate con riferimento a quel tema. E, in definitiva, perché le conseguenze, ancor più i rischi, per loro natura non possono essere compiutamente definiti in anticipo. Perciò le valutazioni di impatto e il dibattito pubblico, previsti dalle normative europee e non solo. Perciò il nostro impegno di mettere a disposizione di comitati e movimenti informazioni ed esperienze differenti, per costruire alternative. Nella convinzione profonda che si tratti, per parte nostra, di un’azione eminentemente di servizio, poiché si ritiene che esistano, diffusi, saperi conoscenze esperienze, che assai validamente possono sostenere ragioni, emozioni, sentimenti dai quali non si dovrebbe prescindere nel “fare”. Vogliamo puntare sull’auto formazione, sul reciproco arricchimento nell’incontro e nel dialogo. Lo scopo nostro è di lavorare alla elaborazione di analisi e proposte e, per questa via, stimolare ad una partecipazione sempre più pressante, che innervi una democrazia delegata che sta ormai sempre più smarrendosi, mediante il rafforzamento del diritto di parola dei cittadini e del loro diritto di decidere sul proprio ambito di vita.

Nessuna remora deve esserci nella discussione pubblica, piuttosto è quanto mai impellente la creazione di specifici spazi pubblici nei quali vagliare problemi e soluzioni. L’unico modo per superare la tecnofilia degli esperti e del senso comune dilagante che affidano alla scienza e alla tecnologia ogni prospettiva possibile ( pur di non toccare, consapevolmente o no, l’organizzazione sociale dominante) e la parallela inversa tecnofobia di chi, di fronte ai drammi moderni, diffida di ogni proposta tecnologica. Tecnofilia e tecnofobia sono figlie di un processo mentale arrogante che esclude il principio di precauzione, che esclude cioè di non sapere, ma afferma invece di sapere. In realtà si sa assai poco e sempre molto parzialmente, in un senso e nell’altro. L’esperto lo è di un piccolissimo frammento e quindi non può essere sicuro che le conseguenze saranno proprio quelle che lui espone. Il cittadino ha accumulato un sapere che può, al limite, lasciargli soltanto presumere che i rischi saranno effettivamente quelli che l’esperienza alle sue spalle sembra indicare. L’uno e l’altro debbono applicare il principio di precauzione nelle loro analisi, previsioni e critiche, e lo debbono fare attraversando lo spazio pubblico del confronto.

Per evitare, il più possibile, le innumerevoli trappole nelle quali gli uni o gli altri possono cadere. Il punto, quindi, non è la soluzione tecnologica, ma la trasformazione sociale che essa comporta nel lungo periodo e la fuoriuscita, intanto, da ogni paradigma di crescita centrato sulla ricchezza calcolata solo in termini quantitativi (il Pil).

Se i sistemi che sostengono la vita sono pesantemente compromessi, l’acqua, l’aria, il terreno, non si può rinunciare ai benefici che potrebbero apportare tecnologie moderne per temperare questa compromissione. Ma vogliamo essere precisi, affinché non siano possibili fraintendimenti.

Per esempio, per quanto attiene alla sequestrazione della CO2, è evidente l’assurdità di produrla per sotterrarla. Altra cosa se si considera che non sarà così semplice liberarsi dalla dipendenza dalle fonti fossili. Per esempio, la produzione di energia elettrica dalla fonte nucleare non impedisce che si usi il petrolio nell’estrazione del minerale, nella costruzione delle centrali, ecc. insomma che si continui a produrre anche CO2. Ma analoghe considerazioni valgono, evidentemente, anche per le fonti rinnovabili: le pale di alluminio dell’eolico, i materiali del fotovoltaico… implicano consumi petroliferi non indifferenti (e di materie prime) per cui non è sufficiente che decollino tali energie perché ne risulti automaticamente l’emancipazione dalla dipendenza dal petrolio. Siamo quindi contrari a ritenere che la sequestrazione della CO2, una volta che ne fosse dimostrata l’intrinseca affidabilità, possa significare l’avvento dell’era del carbone o dei fossili puliti. Tutt’altro. Tuttavia dobbiamo porci il problema di quante energie fossili (sempre più in quantità decrescenti) e per quanto tempo occorreranno nel periodo della transizione, che è appunto un periodo e non un momento.

Simili considerazioni riguardano un altro grande scottante tema, l’utilizzo degli OGM. L’ostilità è dovuta alla constatazione di come l’uso massiccio di varietà geneticamente modificate abbia prodotto negativi effetti socioeconomici. Con la connessa gravissima riduzione della biodiversità (elemento cruciale per il futuro del Pianeta). Non solo la proprietà dei semi si restringe in pochissime mani, attribuendo un potere enorme, ma le nuove varietà generalmente necessitano di irrigazioni, fertilizzazioni e antiparassitari, cioè di consumi di energia, ben più rilevanti di quelli locali. Del resto, la fame nel mondo, risulta la conseguenza degli assetti sociali (compresa la distruzione dell’agricoltura locale) e di fenomeni globali, come il cambiamento climatico, la desertificazione e l’inquinamento delle acque. Altra cosa sono la ricerca chimica e medica.

In ogni caso, tutte queste azioni e questi interventi, e altre simili, quand’anche si rendessero possibili, richiedono che si abbandonino consumi così elevati e così concentrati in piccolissime porzioni del globo, a beneficio di una ridottissima parte dell’umanità. Non perché siano estesi, ma perché siano dovunque modificati, poiché già oggi restringono il possibile futuro umano. Il quale potrà svolgersi solo in sintonia con gli ecosistemi terrestri, con la loro protezione, con la conservazione della diversità. Contro il modo di produzione considerato vincente, ma in realtà momento di accumulazione di situazioni ambientalmente e socialmente insostenibili.

b) nuova cultura energetica

L’azione di contrasto svolta sul campo da forze sociali e politiche, da movimenti, comitati e associazioni, nonché i risultati di ricerche e approfondimenti scientifici e culturali si cimentano tuttavia con modi di pensare, con un senso comune, per nulla incrinati nella certezza che il futuro ed il progresso risolveranno le più critiche situazioni attuali. In un certo senso prevale la convinzione che le soluzioni verranno trovate, sia pure con una fatica e con drammi che purtroppo bisogna mettere nel conto. In altre parole, non vi è la percezione di trovarsi a un punto di svolta, almeno in Europa. Da tempo, per esempio, appare in tutta la sua tragicità la dura condizione dei lavoratori, con la sequenza impressionante delle morti sul lavoro, ma non a caso l’emozione pubblica non ha scalfito l’inazione della politica, l’arroganza delle imprese, l’afasia della società civile. E il caos del mondo, con le sue guerre e ingiustizie resta comunque sullo sfondo, sfocato.

Intervenire su questo punto va, ovviamente, troppo oltre le nostre possibilità e capacità; resta comunque un tema che deve inquietarci, spingendoci ad aprire un laboratorio che sia punto di scambio di analisi, pensieri, esperienze. Perché si riacquisti fiducia nell’azione collettiva e per far valere quella sapienza che si instaura laddove ci si riconosce nell’altro, sia pure attraverso il conflitto, e si riconosce e comprende il legame con l’ecosistema.

Due ci sembrano i versanti di intervento.

Intanto riflettere sul trovarci nel Mediterraneo, recuperando una dimensione specifica di cultura energetica, poiché qui il sole e il vento, l’acqua e l’aria, il mare e la terra, presentano aspetti e sfumature differenti da quelli di altre regioni. Nessun mito romantico della natura mediterranea, né alcun ritorno a culture idealizzate del passato. Più semplicemente la riflessione sulla propria storia può mettere capo alla elaborazione di un punto di vista, e di un modello energetico, di un sistema che accetta di dipendere coscientemente dalla natura del Mediterraneo. Che cerca di conoscerla meglio, di salvaguardarla e non di violentarla, di chiudere il cerchio con i suoi ecosistemi. Un campo di ricerca enorme, di divulgazione da parte nostra, per sprovincializzare una società omologata dall’egemonia, dal senso comune, dominanti.

Parallelamente interrogarci sulla responsabilità della scienza, tema quanto mai spinoso, soprattutto perché anche la conoscenza scientifica è stata ridotta a merce. Ad essere venduta e acquistata (i brevetti) in esclusiva pur essendo prodotta tramite un processo sociale. Da questo punto di vista non basta neppure più il principio di precauzione, prima invocato, ma vanno considerati gli interessi in gioco, soprattutto quelli dei finanziatori che ne intendono ricavare profitti e va considerata anche la temperie culturale complessiva di una determinata epoca, che influisce sul ricercatore e sui temi della ricerca, anche oltre il condizionamento imposto dal finanziatore.

Pensiamo siano cruciali la priorità della ricerca pubblica e l’urgente bisogno di uscire da schemi epistemologici che lasciano insoddisfatti perché centrati su modelli che comportano la parcellizzazione o la riduzione dei temi in esame ai soli elementi che si ritiene di poter ordinare in sequenze comprensibili. Che ne semplificano, arbitrariamente, la complessità. L’arbitrarietà non significa perdita di efficacia, ma, certo, rende fragile il sistema sulla lunga durata: il cambiamento climatico ne è un esempio eclatante. Accettare invece di fare i conti con tale complessità è probabilmente il più importante passo di quel cambio di paradigma su cui intendiamo insistere.

c) contro il ritorno del nucleare

Il governo del nostro Paese ha riproposto “il miglioramento del quadro strategico di approvvigionamento dell’energia, della sicurezza e dell’affidabilità del sistema” mediante la costruzione di nuove centrali nucleari, archiviando la contraria decisione del referendum abrogativo del 1987. Non c’è dubbio che, risalendo l’ultimo piano energetico nazionale al 1988, un tempo lontanissimo, addirittura prima della Conferenza delle NU di Buenos Aires e del protocollo di Kyoto che ne fu il “migliore” frutto, occorresse porre mano alla ridefinizione delle politiche energetiche, così come giustamente invita a fare anche l’Unione Europea, con la proposta di ridurre il consumo di energie fossili del 20%, aumentando del 20% sia il risparmio di energia che l’utilizzo di fonti rinnovabili. No! Il governo italiano, fattosi portavoce di Confindustria – e cioè di settori poco inclini all’innovazione come dimostra la scarsissima quota di investimenti da loro dedicata alla ricerca – contrasta queste decisioni sostenendone l’eccessivo costo, insopportabile afferma, per il sistema industriale del nostro Paese. Contestualmente rilancia il nucleare affermando che ne verrà il beneficio della diminuzione della produzione di CO2 e degli altri gas alteranti il clima. A parte la contraddittorietà di questo modo di fare, è sufficiente ricordare come l’estrazione del minerale, la sua trasformazione, la costruzione e la gestione delle centrali, il loro smantellamento producano CO2 perché tutte operazioni che implicano un uso massiccio di fonti fossili e di materiali (cemento, acciai speciali…) prodotti con grande loro impiego. E, poi, riflettere sulla circostanza che il nucleare attiene alla produzione di elettricità che è una quota minoritaria degli attuali consumi energetici (il 17% circa); resta scoperta la gran parte del problema energetico, riferibile ai settori dei trasporti, del riscaldamento, dell’industria, dell’agricoltura (oltre l’80% dell’energia consumata). D’altronde è utile ricordare che la Francia, lo Stato più nuclearizzato (59 centrali), è anche quello dove vi è il maggior consumo di petrolio pro capite, a dimostrazione che il nucleare non è un’alternativa all’uso dei combustibili fossili; e, inoltre, che sempre la Francia deve importare elettricità nelle ore di picco, per la scarsa flessibilità della produzione elettrica da fissione, la quale a sua volta costringe alla vendita a prezzi stracciati agli stati confinanti dell’elettricità in esubero nelle ore morte. Il prof. Angelo Baracca (L’Italia torna al nucleare?) scrive anche che la Francia “nel 2006 ha deciso di riattivare centrali termoelettriche a combustibili fossili obsolete per 2600 MW”, proprio per far fronte a situazioni di picco

Queste condizioni particolari, e la circostanza che la Francia da tempo sia una potenza nucleare sottolineano come la tecnologia della fissione dell’uranio non sia nata per produrre elettricità ma bombe (dal complesso militare ha ottenuto e ottiene i maggiori finanziamenti). Questo imprinting ha pesato enormemente nel precludere altre linee di ricerca. Inversamente, oggi è estremamente facile, per gli Stati che vogliono dotarsi di armi atomiche, iniziare con la produzione elettrica per passare successivamente, una volta acquisite le competenze, le tecnologie e organizzate le strutture, all’”atomo di guerra”. Alimentando così i rischi di guerra.

Vale la pena, ancora, di ricordare il monito di Paolo Baffi, in apertura della Conferenza dell’energia del 1987, circa il cambiamento inaccettabile che sarebbe stato indotto dalle esigenze di sicurezza e segretezza per custodire il plutonio, risorsa fondamentale per la costruzione degli ordigni nucleari. L’idea di una società militarizzata ha fatto strada, non ostante l’orrore che si pensava potesse suscitare, la Camera dei Deputati discute come sia possibile che in mancanza di un’intesa con le amministrazioni locali nel cui territorio siano localizzati i siti nucleari, debba scattare “il potere sostitutivo” dello Stato. Il quale deciderà e disporrà senza tante storie, sorvegliando i territori con le forze militari e, addirittura, localizzando le nuove centrali direttamente nelle aree militari. Con recente legge il governo ha in generale tagliato corto con tutte le possibili obiezioni statuendo che possono essere considerati siti strategici e quindi protetti dai militari e sottratti al dibattito democratico e al controllo trasparente delle popolazioni un insieme di altre strutture.

L’autoritarismo, la centralizzazione delle decisioni, le scelte concrete stanno quindi producendo una società in cui la democrazia è colpita al cuore per ridursi al puro momento elettorale (peraltro ampiamente condizionato dal controllo dei mass media): perciò la battaglia contro il nucleare si configura anzitutto come lotta per la democrazia e per la pace.

Altri argomenti ancora suffragano questa impostazione. Il fatto, per esempio, che la disponibilità del minerale uranio non vada oltre i 35-40 anni al ritmo dell’attuale utilizzo (salvo nuove scoperte e processi di fertilizzazione che possono allungarne di poco l’esistenza) implica che l’Italia dovrà vedersela con colossi come gli Usa, la Cina, l’India, il Brasile, la Russia… per contendere loro il prezioso minerale. E’ credibile uno scenario di tal fatta? E se sì, con quali rischi di guerra?

Per quanto riguarda la suscettibilità della scelta nucleare di diminuire la bolletta elettrica richiamiamo qui il problema del costo del Watt, incomparabile con quelli prodotti altrimenti, per l’inconoscibilità di molti elementi (soprattutto di quelli relativi a decommissioning e alla protezione delle scorie). Ancora, in Finlandia è in costruzione a Okiluoto dal 1998 un reattore per 1600 MW, il cui costo iniziale previsto in 3 miliardi di euro è raddoppiato e la cui realizzazione, prevista in 11 anni, è ancora lontana dalla conclusione. . Dunque, è impossibile fare un vero raffronto. Anche da queste minime considerazioni su quanto sta avvenendo oggi traspare il metodo superficiale seguito dal governo, la mancanza di un’idea precisa, che non sia il business dell’appalto per questi mega impianti. A riprova, si può ricordare che attualmente sono in costruzione nei Paesi avanzati soltanto tre centrali (Finlandia, Francia, Giappone), perché il nucleare non conviene, come ricorda addirittura Pasquale Pistorio, ex vicepresidente di Confindustria, e non certo per l’opposizione degli ambientalisti o per via del referendum italiano. Secondo Amory Lovins “il nucleare è stato ucciso da un inguaribile attacco di economia di libero mercato”, e non è stato rianimato negli Usa neppure dai consistenti incentivi introdotti dal presidente Bush.

Un problema irrisolto (essendo tale da tantissimo tempo è forse il caso di dirlo irrisolvibile?). E’ quello dei rifiuti, le cosiddette scorie, del ciclo produttivo complessivo, delle miniere, delle centrali e degli installazioni militari nucleari. La scienza generalmente ne ammette l’estrema pericolosità: minore in quelli che dimezzano in pochi anni la loro radioattività, maggiore in quelli che continuano ad essere attivi per migliaia d’anni (Plutonio 239 24100 anni; Uranio 234 245000 anni; Uranio 235 710 milioni di anni; Uranio 238 4,5 miliardi di anni). Perciò il costo per la protezione di tali scorie è effettivamente incalcolabile, si sa soltanto che è elevatissimo e, di conseguenza, con estrema disinvoltura non entra mai nei calcoli che vengono presentati all’opinione pubblica per misurare la fattibilità dei programmi. Se pensiamo che nel mondo le scorie possono aver raggiunto le 270mila tonnellate, ci rendiamo conto della gravità del problema, già oggi.
Nella attesa di trovare i famosi siti di confinamento a grandi profondità, si cercano intanto depositi di “lunga durata”, cioè pur sempre temporanei, sia pure di 2 o 3 centinaia di anni. Ma anche qui si è in alto mare, pur consapevoli che in tal modo si sta preparando un biscotto avvelenato per i nostri discendenti! Restano i depositi di “messa in sicurezza”, provvisori per definizione, sotto la Yucca Mountain nel Nevada, cui far convergere le scorie dai 131 depositi disseminati negli Stati Uniti, Sellafield In Gran Bretagna e la Hague in Francia dove si ritrattano per produrre nuovo combustibile. A Sellafield si trovano anche una parte delle scorie molto radioattive prodotte dalle centrali nucleari italiane. In Italia hanno funzionato quattro centrali (Caorso, Trino Vercellese, Latina e Garigliano), cinque impianti di ritrattamento del combustibile (Saluggia, Bosco Marengo, due a Casaccia e Trisaia), una dozzina di centri di ricerca, oltre ad una decina di piccoli depositi. In totale si dovrebbe trattare di circa 64mila metri cubi di scorie radioattive, la maggior parte dei quali (35mila) sono conservati nelle quattro vecchie centrali. Il resto è conservato negli altri siti, principalmente a Saluggia e Casaccia. L’aspetto molto grave è che l’Italia abbia affidato alla Sogin spa, finanziandone le attività con il sovrapprezzo sul kWh elettrico, la gestione delle scorie. A parte la circostanza che la Sogin non ha fatto quasi nulla, è stato anche assurdo affidare ad una spa, e non un’Agenzia pubblica, tale incombenza con l’effetto devastante della sua esclusione dai consessi internazionali, mettendo l'Italia nel più completo isolamento internazionale. Per gestire i rifiuti, occorre chiudere la Sogin e dotarsi di un sistema fondato su di un’Agenzia pubblica (da affiancare a Enea e Apat riformate) che, previa definizione degli obiettivi e dei finanziamenti da parte del Parlamento e sulla base di precisi input del Governo, stabilisca programmi, tempi e costi. L’Agenzia indipendente e autonoma opererà valutazioni e controlli, che verifichino anche il rispetto da parte di tutti gli operatori del settore degli elementi di sicurezza e protezione delle popolazioni e dell'ambiente. Essa riferirà al Parlamento e alle Regioni, sia per riceverne osservazioni e indirizzi sia per mettere al corrente le popolazioni dei problemi e delle soluzioni.

Si è costituito il Comitato oltre il nucleare, per un’alternativa energetica, basata sulle fonti rinnovabili e il risparmio. Otherearth è tra i promotori del Comitato e, intanto, sta lavorando alla fattura di un DVD che argomenti i perché dell’opposizione al nucleare e documenti su di un argomento che sembra accettato da molti sostanzialmente perché disinformati sulla sostanza.

L’alternativa da costruire è quella della elaborazione di un Piano energetico nazionale, al cui centro siano parametri differenti ( dalle energie fossili a quelle solari) che indichino le politiche entro le quali iscrivere le singole azioni: decisioni energetiche e scelte tecnologiche, riconversione ecologica delle industrie più energivore e riduzione dei rifiuti, cambiamento del peso del trasporto individuale e su gomma e protezione dell’acqua e del suolo. E’ chiaro che un piano energetico, se non vuole ridursi a una generica indicazione che avrà semmai attuazione in relazione agli incentivi volta a volta stabiliti dal governo (con criteri e scelte che potranno essere assai discutibili seppure, perché mai dubitarne? sempre motivate con l’interesse generale), per orientare i comportamenti dei consumatori, e le decisioni di investimento degli imprenditori, non può non definire gli strumenti con i quali operare. Questi sono, anzitutto la funzione di guida che possono avere aziende e agenzie che, come recita la nostra Costituzione, agiscano operando per l’utilità sociale e siano “riservate” a comunità di utenti e di lavoratori. Un piano energetico degno di questo nome deve prendere atto del grande processo di concentrazione delle imprese seguito alle decisioni di liberalizzazione; ormai, come afferma anche Alberto Clò, le concentrazioni sono il paradosso delle liberalizzazioni. Magari ci sono buone ragioni economiche, per irrobustirne la presenza sui mercati, ma certo vi sono anche decisioni politiche che interagiscono perché gli approvvigionamenti di gas e petrolio attengono direttamente alla politica estera di un Paese (e così sarà anche per l’uranio). Come abbiamo accennato, il nucleare è il simbolo di una decisione fuori mercato perché senza un adeguato sostegno nessun imprenditore si assume rischi e incertezze così rilevanti, e costi difficilmente prevedibili all’inizio di quel lungo percorso che porterà eventualmente alla realizzazione dell’impianto. Insomma, le concentrazioni seguite alle liberalizzazioni sono parte di una decisione politica che non può essere la nostra, perché riteniamo che l’universalità del servizio, la sua accessibilità, la rispondenza ad obiettivi di qualità sociale debbano prevalere sull’obiettivo di un’adeguata e rapida remunerazione del capitale, cioè sulla centralità della competitività e del profitto. Insomma è un tema, quello del Piano, che comporta impervie strade contro correnti.

d) il piano energetico regionale

Nel nostro Paese, e in Europa, sono molte le esperienze di lotta e di proposta, e notevoli le iniziative tecnologiche, decise da istituzioni, imprese, singoli, che delineano alternative di comportamenti; esse costituiscono una miniera ricchissima per cercare di realizzare itinerari di cambiamento. Perciò l’elaborazione del Piano Energetico Regionale può costituire l’anello di verifica delle posizioni nostre (della sinistra) se tentiamo di passare dalle parole di critica alla messa a punto di obiettivi e scelte: la transizione non è solo un desiderio, un dover essere, ma costituisce il fondamento di un’analisi specifica che mette capo a precisi programmi.

La redazione del PER non si deve limitare, secondo noi, all’analisi della domanda e dell’offerta, dei loro andamenti, degli elementi critici che si debbono rimuovere e della crescita che deve essere assicurata nei vari settori di produzione e di impiego. Ma da questa analisi bisogna partire per orientare la società regionale verso una prospettiva differente dall’aumento quantitativo del Pil. In un certo senso l’analisi energetica è un buon punto dal quale leggere elementi significativi della struttura della società laziale, il suo rapporto con la natura e le situazioni di crisi. Crisi ambientali e crisi economiche e sociali, che non sono adeguatamente affrontate.

Ovviamente, i fenomeni sociali e naturali sono interdipendenti tra loro e l’uno verso l’altro ed occorre una capacità di analisi intersettoriale che faccia riferimento a diversi saperi e culture (anche a differenti discipline); e ciò dovremo aver ben presente per concludere con delle proposte, in tema di energia, che ci permettano di fare un passo avanti. Un progetto integrato verso un modo di produrre, consumare e vivere complessivamente diversi è il nostro desiderio, per contribuire a imprimere una svolta non immaginaria.

Questo modo di pensare l’energia differisce dall’impostazione delle élites dominanti che vedono buio il futuro dell’Italia perché, secondo loro, la politica esita a decidersi e, quando lo fa, pasticcia. Premono a favore del carbone pulito, che non esiste, e del nucleare intanto impegnandosi in Francia o all’Est; destinano qualche euro alle rinnovabili, ma poi assimilano a queste anche il recupero dei rifiuti; con il più alto tasso di motorizzazione dell’Europa e la più ampia cementificazione del territorio, puntano ancora alla rottamazione, ai condoni, a rendere edificabili le aree agricole. L’efficienza energetica nell’industria e in agricoltura resta un obiettivo lontano, il risparmio energetico si è trasformato in un appello più che diventare pratica, l’osservanza del protocollo di Kyoto è apertamente contestata.

Al contrario, noi vogliamo enormi finanziamenti per realizzare la transizione verso un assetto differente. Non solo esattamente opposto, precisamente la civiltà solare, ma in cui l’innovazione dei processi e dei prodotti sia la parte più cospicua sulla quale investire formazione, ricerca, iniziativa economica e sociale. E in cui tutte le occasioni energetiche presenti sul territorio possano essere considerate importanti e valorizzate (non dunque la ridicola riduzione di questa ipotesi alla produzione esclusivamente su piccola scala, magari di spezzoni di energia elettrica prodotta in sovrappiù rispetto ai propri consumi).

L’uscita dalla società fondata sull’uso dei combustibili fossili è il problema energetico e sociale di oggi e se indubbiamente vi é un ampio campo per le azioni che comunque si possono già fare e una grande responsabilità anche degli individui (che tuttavia vanno educati a questo obiettivo e questa già potrebbe essere una forte iniziativa: l’educazione nelle scuole all’uso razionale dell’energia), non c’è dubbio sulla necessità di un nuovo punto di vista culturale e politico, di un nuovo paradigma energetico. A formare il quale, su quali forze intellettuali si può contare e su quali risorse, e come reperite e, in definitiva, chi sono i molteplici soggetti del cambiamento e come fare affinché diventino attivi e trainanti? Domande che premono, perché estremamente difficili nella frammentata società dei consumatori. Eppure con esse dobbiamo misurarci, individuando nel percorso di costruzione del PER un momento decisivo per tentare di non restare alla proclamazione di intenti. Il metabolismo della città di Roma, la struttura artificiale degli ecosistemi laziali, il modello dissipativo della crescita, la privatizzazione della vita, le disuguaglianze diffuse costituiscono, per esempio, tutti capitoli interdipendenti di una proposta di cambiamento che limiti i danni e inverta le tendenze in atto. La quale, come abbiamo visto considerando l’obiettivo del Pen, non potrà realizzarsi senza la dotazione in mano alla Regione di adeguati strumenti e, intanto, recuperando una dimensione pubblica nella produzione e distribuzione di energia e una capacità di assicurare alla comunità laziale forme precise di intervento nella gestione stessa delle imprese energetiche.

In qualche modo il nostro si potrebbe definire un progetto di energia politica, nel senso di una proposta di politica energetica che fondi un asse politico differente dall’attuale, in controtendenza, centrato su di un’alternativa di civiltà e non sulla crescita di beni (e di residui) che mettono a rischio l’umanità che verrà dopo di noi perché sconvolgono le condizioni della biosfera entro la quale la vita è possibile.

I promotori

Roma, 1 dicembre 2008

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"Piano energetico regionale - Appello di Otherearth ai Consiglieri dei Gruppi di sinistra della regione Lazio"

Riceviamo e pubblichiamo
Siamo vivamente preoccupati dal fatto che il Piano energetico regionale non indichi un chiaro percorso di diminuzione dell’utilizzo delle fonti fossili e di aumento dell’energia risparmiata, per maggiore efficienza dei prodotti e per innovazioni nei processi produttivi, e della quota di energia proveniente da fonti rinnovabili.

Come sapete l’Unione Europea ha indicato precise priorità, in tal senso, che non si ritrovano nella proposta in discussione nella regione Lazio, che considera essenzialmente la produzione elettrica che è una quota inferiore al 20% dei consumi energetici complessivi, riferendosi invece in via marginale ai settori di maggiore impatto (trasporti, industria, agricoltura). Riteniamo infatti che il Lazio, e più in generale il nostro Paese, avrebbe tutto da guadagnare, in termini di risalita dal declino nel quale si trova per più fattori, dall’accelerare l’adozione di processi innovativi. Non soltanto perché rinviare gli obiettivi del protocollo di Kyoto e le modifiche urgenti e mature nei settori a maggiore impatto energetico ci costerà molto di più tra qualche anno quando ci troveremo di fronte Paesi che si sono mossi per tempo su queste strade (Il Rapporto Stern indica in una percentuale oscillante intorno all’1% del Pil il costo attuale della lotta al cambiamento climatico, che salirebbe al 5-6% tra qualche anno). Ma perché, nell’immediato, implicherebbero una finalizzazione delle risorse finanziarie a favore della ricerca, della valorizzazione delle conoscenze, della qualità e quantità di lavoro impiegabile. Tutti gli scenari indicano, infatti, grandi potenzialità in tal senso, qualora si imboccasse la strada del cambiamento e si superasse la miopia e l’inerzia delle élites di Confindustria e del Governo.

La decisione, poi, del Governo di riprendere la produzione di energia elettrica con la fonte nucleare, si rivela molto poco seria, sia perché il costo del kWh nucleare è talmente elevato (se consideriamo i processi di decommissioning e la protezione dei rifiuti) da porlo fuori mercato e da richiedere massicci finanziamenti pubblici, sia perché la costruzione delle centrali richiede un tempo tale che non si può in alcun modo pensare che tale produzione influisca sulla sicurezza energetica del Paese. Sia perché l’esempio della Francia (la maggiore consumatrice di petrolio dell’Unione e lo stato con minore flessibilità e maggiori costi nella produzione elettrica) indica gi errori della scelta; senza qui richiamare l’orrore democratico della militarizzazione dei siti e dei rischi di guerra per poter disporre di un minerale che diventerà sempre più raro. L’intento del Governo serve solo a rianimare un po’ l’industria degli appalti e i produttori di cemento e acciaio. Un misero esito che richiederebbe, proprio nel PER del Lazio una decisa presa di posizione e l’apertura di un conflitto serio per evitare manomissioni irreversibili del territorio e dell’integrità fisica e della salute dei propri cittadini.

Può il Per del Lazio essere l’occasione per avviare la grande sfida della transizione dall’energia fossile e nucleare all’energia solare ?

E’ la domanda cui chiediamo si risponda.

Otherearth (un mondo altro forum energia ricerca)

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La potenzialità del solare in Italia. Perle ai porci?

Riportiamo un interessante articolo comparso su News Italia Press
"Roma - L'Italia è il secondo Paese del mondo che si candida, nel settore del fotovoltaico (ovvero lo sfruttamento dell'energia solare volto alla produzione di energia elettrica), a poter garantire elettricità realmente competitiva con le fonti fossili. È quanto ha stabilito uno studio della McKinsey Global Foundation, in cui il Bel Paese è indicato come una delle due nazioni più vicine alla cosiddetta "grid fotovoltaico1.jpgparity" fotovoltaica, cioè a quel punto di pareggio in cui una cella solare, colpita da raggi solari, riesce a produrre elettricità a costi uguali, o persino inferiori a quelli prevalenti di mercato.

Nonostante l'Italia abbia le tariffe elettriche più care del 30% rispetto alla media europea, essa ha anche un forte irraggiamento naturale, avendo una particolare esposizione al sole.
Di questi e altri temi si sta discutendo da ieri anche alla prima edizione della Conferenza dell'Industria Solare a Roma, che ha come obiettivo quello di far incontrare i più importanti operatori del settore (esperti industriali e commerciali, soggetti finanziari, associazioni, istituzioni, agenzie pubbliche, università e centri di ricerca in ambito internazionale) per fargli ampliare i confini del proprio business e condividere informazioni e innovazioni per lo sviluppo del mercato. La conferenza è stata ideata da Solarpraxis, un'azienda berlinese leader nella comunicazione della tecnologia solare in Germania, in collaborazione con Ambiente Italia, società che vanta una vasta esperienza nella ricerca e progettazione ambientale.

"La conferenza - ha dichiarato Raffaele Piria, direttore per lo Sviluppo Internazionale a Solarpraxis e vicepresidente di Estif (European Solar Thermal Industry Federation) - sta andando molto bene, abbiamo avuto più di 500 partecipanti. C'è un grande interesse sul tema in Italia. Il Bel Paese ha fatto molta strada nell'ultimo anno, sia nel solare termico che produce calore che nel fotovoltaico che produce elettricità. A livello di megawatt prodotti c'è stata una quintuplicazione negli ultimi anni ma a livello di potenza installata pro capite l'Italia è ancora indietro rispetto ad altre nazioni, ad esempio Austria e Grecia. Più di altri Paesi in tema di fotovoltaico per l'Italia ci sono però condizioni molto favorevoli, ma persistono delle difficoltà burocratiche. La previsione più rosea per il futuro è di 400-500 megawatt di nuova potenza, pur sempre quattro volte meno della Germania, dove tra l'altro le condizioni metereologiche sono più sfavorevoli. Come condizioni favorevoli in Italia intendo i contributi economici destinati al conto energia e le detrazioni a favore delle aziende".

Lo sviluppo dell'energia fotovoltaica in Italia sta avvenendo in tempi molto veloci, ma per certi aspetti il nostro Paese è ancora indietro rispetto ad altre nazioni dell'Unione europea, soprattutto a livello burocratico. Con lo scopo di agevolare il mercato italiano nel suo sviluppo è sceso in campo il GIFI, Gruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane. "Se confrontiamo il mercato del fotovoltaico italiano con quelli della Germania e della Spagna, fino al 2008 leader mondiali del settore - ha spiegato Federico Brucciani, Communication Officer del GIFI - esso appare in ritardo. Ma la Spagna a partire dal 2009 ha approvato una legge che penalizza gli incentivi per le energie rinnovabili e anche in Germania sono diminuite le tariffe del settore. Dunque l'Italia ad oggi sta assumendo una posizione di rilievo per il mercato fotovoltaico in Europa. Ci sarà un fiume in piena di pannelli fotovoltaici istallati e verrà aumentata anche la quota destinata alle energie rinnovabili, in linea con quanto stabilito nel Protocollo di Kyoto e nel cosiddetto "Pacchetto 20-20-20" dell'Ue su clima ed energia.

Quello del fotovoltaico italiano è un mercato in crescita, non solo a livello di vendita ma anche di produzione, distribuzione, per tutta la filiera insomma. C'è un alto interesse da parte degli investitori stranieri verso l'Italia, sono numerose le aziende straniere che vogliono aprire loro sedi nella penisola.

In Italia però ci sono ancora colli di bottiglia a livello amministrativo e burocratico. Il GIFI, Gruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane, sta lavorando con le istituzioni proprio per abbattere i problemi che esistono sul mercato italiano. È necessario - ha concluso Brucciani - migliorare ad esempio gli strumenti finanziari che offrono le banche per l'accesso al credito delle aziende e in questo senso Gifi e Intesa San Paolo hanno stipulato un accodo che prevede condizioni vantaggiose per le imprese. Inoltre il prossimo 5 marzo al Salone "Energethica" di Genova stiamo organizzando un convegno dal titolo "Il fotovoltaico nel 2009: prospettive di sviluppo e strumenti finanziari" che servirà a comprendere meglio quali potranno essere le strade per migliorare gli strumenti finanziari legati al settore delle energie rinnovabili e come poterli differenziare in particolare per il mercato fotovoltaico.

In tema di fotovoltaico ed energie rinnovabili si stanno muovendo anche le Camere di Commercio italiane all'estero. In molte partecipano anche per quest'anno al progetto "Sviluppo di energia da fonti rinnovabili", giunto alla quarta annualità. Il progetto nasce con l'obiettivo di sensibilizzare i Paesi esteri sul grado di sviluppo del settore energetico in Italia e aiutare le piccole e medie imprese italiane ad avviare rapporti internazionali di interscambio tecnologico e industriale. Sull'argomento sono intervenuti qualche tempo fa alcuni segretari generali delle CCIE (fonte dichiarazioni: www.assocamerestero.it), che hanno spiegato il ruolo che le imprese italiane impegnate nel settore energetico possono giocare nel territorio di loro competenza.

Come ha affermato Giovanni Aricò, Segretario generale Camera di Commercio Italiana di Madrid, "l'industria spagnola delle energie rinnovabili ha avuto, negli ultimi anni, un forte incremento anche grazie agli aiuti legislativi, in particolar modo nei sub-settori del fotovoltaico e dell'eolico. Parallelamente, la domanda in questi settori è enormemente cresciuta grazie ai numerosi investimenti realizzati dai privati, ad esempio, nell'applicazione del fotovoltaico all'edilizia. L'industria Italiana del settore ha conseguito altresì un enorme progresso sia nell'innovazione tecnologica che nella produzione attestandosi come una partner molto interessante soprattutto nel campo delle energie ottenute da biomasse e in quello della componentistica per l'assemblaggio di pannelli e strutture utilizzate nel fotovoltaico. Questa situazione ha evidenziato una certa complementarietà tra le industrie dei due paesi, per la specializzazione in funzioni diverse della stessa filiera produttiva (nel fotovoltaico), nonché per lo sfruttamento di fonti rinnovabili differenti (eolica e biomasse). Tale complementarietà, quindi, apre le porte a grandi prospettive di interscambio commerciale tra imprese italiane e spagnole nei prossimi anni".

"Anche nel Regno Unito e soprattutto in Scozia - ha aggiunto Helen Girgenti, Segretario Generale della Camera di Commercio italiana di Londra - esistono le condizioni ideali per lo sfruttamento di energia eolica e marina, proveniente dalle correnti. Le imprese italiane se da un lato possono acquisire il know how inglese per riproporre anche in Italia soluzioni simili, dall'altro possono sicuramente stipulare accordi di collaborazione con aziende private o enti inglesi per la fornitura di tecnologie".

Per Giovanni Incisa di Camerana, Segretario Generale della Camera di Commercio italiana di Lisbona "in Portogallo il settore delle energie rinnovabili ha subito un grande impulso negli ultimi anni interessando una vasta gamma di fonti possibili: eolica, fotovoltaica, biomassa, onde del mare e geotermica. Nel campo delle energie eolica e fotovoltaica, esistono in questo paese i più grandi impianti di Europa. L'APER, associazione italiana dei produttori di energie rinnovabili, ha partecipato ai seminari realizzati a Lisbona nel 2007 e nel 2008 avendo così avuto modo di verificare lo "stato dell'arte" del settore e le possibilità di collaborazione tra imprese italiane e portoghesi. Alcuni contatti tra imprese dei due paesi sono già stati realizzati nelle ultime edizioni di Ecomondo a Rimini, nonché nello scorso autunno presso la Fiera del Levante a Bari. L'Italia è già presente in Portogallo con l'ENI che detiene una quota importante nel capitale della GALP ENERGIA (33,4%) e l'ENEL che ha già realizzato investimenti nella Penisola iberica. Un esempio della collaborazione tra Portogallo e Italia ci è altresì dato dall'apertura a Milano di una filiale di un importante costruttore portoghese di impianti eolici: la Martifer. Riteniamo pertanto di poter confermare che esistono per le imprese italiane concrete possibilità di collaborazione con il tessuto imprenditoriale portoghese, soprattutto nell'ambito della ricerca e dello scambio di tecnologie".

Per la Grecia ha parlato Marco Della Puppa, Segretario Generale della Camera di Commercio italiana di Salonicco. "Nonostante qualche difficoltà burocratica ancora esistente nel Paese ellenico, che porta ritardi nell'assegnazione delle licenze in alcuni campi - ha detto - le prospettive future per l'ingresso di altre realtà italiane nel settore sono concrete. Ad oggi sono già presenti sul territorio ellenico alcune delle principali imprese italiane del settore come Edison ed Enel, direttamente o tramite joint-venture grazie ad una serie di investimenti sulla produzione d'energia da gas naturale e da fotovoltaico, mentre Eni opera nel nord della Grecia per la distribuzione del gas per uso domestico. Il ruolo di queste grandi imprese è quello di fare da apripista per altre realtà italiane per nuovi investimenti soprattutto nel campo del fotovoltaico e dell'eolico al centro di una politica energetica del Governo locale".

Andrea Lotti, Segretario Generale della Camera di Commercio italiana di Zurigo ha infine dichiarato che "la Svizzera è un paese avanzato nello sviluppo delle energie rinnovabili, aiutato non solo da un sistema imprenditoriale dinamico ma anche da un sistema di incentivi pubblici premiante per le tecniche di sviluppo sostenibile. Il Sistema Italia nel suo complesso dovrebbe, quindi, cercare di assorbire e fare sua almeno in parte l'esperienza svizzera anche sotto il profilo degli incentivi e delle politiche pubbliche di intervento tese al risparmio energetico e alla coibentazione degli edifici pubblici e privati. Sul fronte imprenditoriale è sicuramente interessante per le imprese italiane stabilire delle partnership con imprese svizzere per avviare dei rapporti di import strategico e o per la realizzazione comune di investimenti sul suolo italiano nei settori fotovoltaico, eolico, geotermico e biomasse. Interessante anche la partecipazione comune a progetti INTERREG finanziati dall'UE o a progetti transfrontalieri per migliorare la capacità di sfruttamento delle risorse idriche".

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3 febbraio 2009

Prossimi appuntamenti

MERCOLEDI' 4 FEBBRAIO - ore 18:00

Massimo Carlotto e Stefano Montanari presso libreria Feltrinelli presentano i libri
Perdas de fogu / Il girone delle polveri sottili.

Libreria Feltrinelli, via Appia nuova 427, Roma


http://www.stefanomontanari.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1473&Itemid=1


VENERDI 6 FEBBRAIO - ore 17

Conferenza presso la Promoteca del CAMPIDOGLIO, Roma.

Interverranno i ricercatori Stefano Montanari e Antonietta Gatti, il Medico ISDE Giovanni Ghirga
e il Prof. Paul Connett.

Programma dettagliato:
http://www.sporchidamorire.com/convegnosporchidamorire/index.html

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2 febbraio 2009

"In ricordo di Chehari Behari Diouf"

Comunicato dell'Arci Civitavecchia

In ricordo di Chehari Behari Diouf

02-02-2009 14:03

"Diouf , un immigrato senegalese, è stato ucciso da una mano folle per futili motivi. Sembra una “normale” storia di violenza, ma rappresenta invece un dramma complesso che non va dimenticato ma approfondito.
Era in Italia da vent’anni, aveva trascorso metà della sua vita nella nostra città ed era amico di molti civitavecchiesi. Le circostanze della sua morte ci lasciano profondamente scossi e ci spingono ad interrogarci sui motivi che hanno innescato una reazione così violenta in chi gli ha sparato. Vogliamo che la magistratura faccia presto chiarezza su questa triste e inquietante vicenda, e che sia fatta giustizia.

L’Arci di Civitavecchia vuole esprimere la sua solidarietà e la vicinanza al dolore dei cugini di Diouf qui in Italia, della famiglia in Senegal e della comunità senegalese, ricordando chi era Chehari Behari Diouf.

Diouf era un ragazzo che aveva scelto, come tanti suoi connazionali, di emigrare dal Senegal da giovanissimo affrontando le difficoltà che questa scelta comporta. A Civitavecchia si era battuto per vivere e lavorare con onestà. Era conosciuto in città per la sua attività, che dopo aver praticato porta a porta era arrivato a gestire – finalmente - in un suo banco al mercato.

Durante il suo percorso di vita in Italia ha avuto modo, attraverso l'Arci di Civitavecchia, di dare un ulteriore senso alla sua condizione di cittadino immigrato. Partecipò infatti, alla realizzazione di iniziative per favorire sia l'integrazione che la valorizzazione dell’identità culturale della comunità senegalese ( e più in generale africana) presente nella città. Con lui nacquero il progetto “Civitavecchia Città Cosmopolita” attuato tra il 1998 e il 2002, lo Sportello Immigrati, e una serie di eventi :incontri culturali (il Griot, la Korà!), cene etniche , che hanno fatto conoscere a molti civitavecchiesi la straordinaria cultura di Diouf e dei suoi connazionali.

Ma di Diouf va ricordato l'impegno e la costanza a voler perseguire, per se e per gli altri, la ricerca di una degna condizione lavorativa e sociale. Promosse con noi decine di incontri con l'amministrazione Comunale e i rispettivi Funzionari con lo scopo di definire una più utile e onorevole collocazione degli immigrati nel mondo del lavoro autonomo, nel commercio e nell’accesso agli alloggi popolari. Collaborò affinché le esigenze dei suoi concittadini trovassero nella nostra Associazione un punto di riferimento. Lo stesso Diouf era il primo mediatore per accedere ad una rete di sostegno culturale, sociale e di assistenza legale. Era un nostro socio da 10 anni e ogni volta che poteva offriva il suo aiuto ai connazionali appena arrivati in Italia. La scelta di dare un contributo era un tratto fondamentale di Diouf; era un onesto cittadino straniero che voleva affermare la propria dignità .Questo va ricordato in aggiunta alla stima e alla simpatia che nutrivamo nei suoi confronti.

Diouf aveva una famiglia splendida con tanti figli che mandava a studiare per fargli avere un futuro diverso dal suo. Con i risparmi maturati negli anni aveva costruito una casa dignitosa in Senegal dove un giorno si sarebbe ritirato. La storia di Diouf è simile a quella di milioni di italiani che in passato sono andati per il mondo a cercare lavoro e fortuna. Ricordare chi eravamo e da dove veniamo deve farci riflettere di fronte agli stranieri oggi in Italia. Il mondo degli immigrati viene spesso presentato attraverso casi limite legati alla criminalità, alla violenza e all’emarginazione; raramente si parla dei milioni di stranieri che svolgono i lavori più duri dando un contributo fondamentale all’economia di questo Paese e delle tante famiglie che vivono integrate nelle città italiane.

Dietro ogni volto straniero c’è una storia come quella di Diouf, la storia di una persona che ha avuto il coraggio di lasciare la propria terra, pur di offrire ai propri familiari rimasti in patria la speranza di un futuro migliore. Crediamo che i cittadini stranieri meritano il rispetto che spesso non viene loro concesso.

Speriamo sinceramente che la morte di Diouf non sia legata al clima di sospetto e paura dello straniero che qualcuno vuole alimentare nel nostro Paese. Siamo convinti che questo clima sia solo in grado di perpetrare un circolo vizioso fatto di pregiudizi e atti di violenza deleteri per tutti. Crediamo inoltre che per contribuire alla costruzione di una società sana e armoniosa sia necessaria una vera conoscenza e un confronto sereno con il prossimo ed a questo ci dedicheremo con più convinzione nel futuro perché Diouf non venga dimenticato.

Occorre che la nostra comunità testimoni a Diouf ed alla sua famiglia una generosa solidarietà riconoscendogli i diritti di un cittadino esemplare. Come Arci saremo tra i promotori di una reale partecipazione al dramma della famiglia di Diouf e di tutta la comunità senegalese affinché non si sentano più soli in una terra che si dimostra troppe volte poco ospitale. Riteniamo che il Comune possa dare alla famiglia un concreto sostegno assicurandole un futuro dignitoso per il quale Diouf stava lavorando.

Sarà ricordato da chi lo conosceva come un simpatico e generoso amico che ti faceva sempre piacere incontrare."

Arci Civitavecchia

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