No al carbone Alto Lazio

30 ottobre 2011

Saline Joniche, breve storia della vicenda carbone

Riportiamo l'articolo "Catastrofi e imbrogli del carbone sulle rive dello Jonio" pubblicato sul Manifesto

È una delle più alte d'Europa, oltre 170 metri. È segnalata persino sulle rotte dell'aeroporto di Reggio. La ciminiera della Liquichimica la scorgi da lontano una volta giunto sulla punta dello Stivale, nel lembo di costa che affaccia sullo Stretto. Sta qui da quasi 40 anni ma non è stata mai messa in funzione. Benvenuti a Saline Joniche, frazione di Montebello, mille anime protese sullo Jonio alle pendici dell'Aspromonte. E un fantasma. Quello della città industriale che avrebbe dovuto dar lavoro a mezza Calabria. Un fantasma ingombrante da migliaia di metri quadri che oggi è un cimitero industriale da far paura. Il fallimento delle politiche per il Mezzogiorno ha qui una sua cattedrale. Trecento miliardi dell'epoca, quelli del Pacchetto Colombo del 1972, investiti per costruire «uno dei più grandi poli industriali del Paese», andati in fumo per dabbenaggine e scelleratezza. Settecentomila metri quadri, un'area gigantesca. E una fabbrica oggi abbandonata come un rottame: spogliatoi, mensa, serbatoi, centrale elettrica, vasche per la produzione di acqua sterile, silos per l'acido cidrico, collegamento ferroviario, persino un porto privato che doveva servire alla movimentazione dei prodotti liquidi. Il tutto costruito solo per esser oggetto di manutenzione straordinaria. Si trattava di impianti all'avanguardia, di notevole interesse scientifico. I laboratori erano destinati ad ospitare collaborazioni tra le università del sud nel campo delle biotecnologie. La produzione complessiva della fabbrica avrebbe dovuto riguardare la lavorazione di normalparaffina derivata da petrolio, allo scopo di trarne componenti chimici per la detergenza e bioproteine da destinare all'alimentazione animale. Insomma, "bistecche" al petrolio per animali. Un business enorme per l'epoca.
Poi, d'improvviso, la tegola. Soltanto dopo aver completato l'impianto, ed aver dilapidato 300 miliardi, il ministero della Sanità si è accorto che le "bistecche" erano cancerogene. E il tempo per la Liquichimica si è fermato a quel giorno di primavera del 1976. Tuttavia quei soldi furono spesi. E qualcuno ci ha lucrato. La fabbrica fu costruita, e furono i Costanzo, catanesi sbarcati in Calabria nel 1975 (affidatari anche dell'appalto per la realizzazione dell'enorme complesso delle Officine Grandi Riparazioni) ad aggiudicarsi i lavori che poi subappaltarono alla cosca locale capeggiata da Natale Iamonte. Ma i contatti con le 'ndrine andarono ben oltre. Pare infatti che i Costanzo si rifornissero dalla ditta di calcestruzzo Gercam, di proprietà Iamonte. E non è superfluo ricordare che è di quegli anni l'indagine della Procura di Reggio che scoperchiò i traffici di armi e stupefacenti tra le cosche catanesi e reggine, con particolare riferimento ai rapporti tra Paolo De Stefano e Nitto Santapaola. Lo stesso porto di Saline, poi, non sarebbe nuovo ad approdi di carichi di armi e droga.

Arrivano gli svizzeri

Sull'area cala il silenzio per oltre 20 anni con l'enorme struttura lasciata ad usurarsi. Mentre l'adiacente porto inizia a fare i conti con la forza del mare che distrugge parte delle banchine e con la sabbia che ostruisce gli imbocchi. Della Liquichimica si ritorna a parlare nel 1997 quando il Consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato) rileva all'asta gli impianti e i terreni ex Enichem con l'obiettivo di rottamare il± ferro e l'acciaio e rivendere il terreno. Con il tempo anche le Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie vengono smantellate mentre la magistratura scopre che la 'ndrangheta aveva già messo gli occhi sulla zona per realizzarvi un centro commerciale. Si assiste da lì in poi a varie promesse sulla rivalutazione dell'area come la costruzione di un Parco marino, l'installazione di pannelli fotovoltaici e altro ancora. Solo parole, niente più. Finchè nel 2006, l'impresa svizzera Sei Spa (Società Energia Saline), gravitante nell'orbita della multinazionale elvetica Repower, acquista dal Sipi una parte dell'area per la realizzazione di una Centrale a carbone. Il cui utilizzo per la produzione di energia elettrica è vietato dal Piano energetico regionale «per tutto il territorio calabrese».

La mobilitazione

Un gigante a carbone dalla potenza di 1320 MW per un investimento di oltre un miliardo. Un paradosso per la Calabria che esporta energia per una quota del 50% rispetto alla produzione e che ha deciso di puntare sulle rinnovabili. Sebbene l'uso del carbone sia assolutamente vietato, la Sei vuole imporre il suo progetto, irrispettosa del parere contrario di Regione, Provincia, Comuni e della gran parte della popolazione. Al contrario, il ministero dell'Ambiente ha ritenuto il progetto «sicuro dal punto di vista ambientale e della salute pubblica». Davvero incredibile dal momento che la combustione del carbone in centrali elettriche rappresenta la più grande fonte di inquinamento da CO2, più del doppio di quelle a gas. Nonostante l'Unione Europea abbia assunto la decisione di ridurre entro il 2020 di almeno del 30% le emissioni di gas serra, rispetto ai livelli del 1990, nonostante l'Organizzazione Mondiale della Sanità abbia rimarcato che «le centrali a carbone sono una delle cause principali dell'emissione delle polveri sottili che ogni anno nel mondo causano la morte di 2 milioni di persone». La comunità scientifica è unanime nel ritenere il carbone una grave minaccia per la salute di tutti: la combustione rilascia un cocktail di inquinanti micidiale (Arsenico, Cromo, Cadmio e Mercurio) che coinvolgono un'area più vasta di quella intorno agli impianti.Il legame tra danno ambientale e minacce per la salute umana dovrebbe ormai costituire comune consapevolezza. Ciò nonostante, e per meri calcoli legati al prezzo del carbone (peraltro in salita), alcune aziende insistono per costruire nuove centrali a carbone o riconvertire centrali esistenti. Cambia la multinazionale, ma il copione utilizzato da nord a sud dello Stivale è sempre lo stesso: ricatto occupazionale, false promesse, tentativi di far passare le centrali come isole felici. Ma al pari di Alto Lazio, Polesine, Vado, La Spezia, Rossano, Brindisi, anche qui nell'area grecanica del reggino le mire espansioniste del capitale hanno dovuto fare i conti con l'opposizione popolare. Da Motta San Giovanni a Montebello, da Melito a Bagaladi, da San Lorenzo a Gallicianò, da Brancaleone a Ferruzzano si è levato alto il grido: "Fermiamo il carbone". Una contestazione che ha varcato finanche i confini nazionali.

Coira, due mesi fa

«La più grande manifestazione dal 2004 quando le popolazioni dei Grigioni contestarono il World Economic Forum». Così la Suddeutsche am Sonntag commentò la mobilitazione ambientalista del 27 agosto scorso a Coira, nei Grigioni. «Vogliamo green power, cara Repower» urlavano gli attivisti elvetici e calabresi contro la centrale idroelettrica di Grusch e l'impianto a carbone di Saline. A disturbare il corteo anche un comitato pro-carbone. Peccato che si è poi scoperto che Repower aveva finanziato con 9 mila franchi la partecipazione dei comitati "spontanei" del Sì, facendo redigere i comunicati stampa dai propri dipendenti.
«È la dimostrazione che la nostra popolazione è stata raggirata per tre anni da Repower -spiega al manifesto Francesca Panuccio, del coordinamento associazioni area grecanica- screditando chi ogni giorno combatte per la difesa della salute e del territorio, nel vano tentativo di influenzare l'opinione pubblica col ricatto occupazionale. Ma a noi non interessa questa idea di futuro che parla al passato. Chiediamo, piuttosto, alla Sei di venire a investire in Calabria, ma puntando sul rinnovabile. Perchè noi crediamo in una Calabria diversa che investe sul turismo e sulla sua vocazione naturalistica. Basti pensare all'oro verde, al bergamotto, che viene prodotto nel 95% da queste parti».
Puntare, dunque, sulle energie rinnovabili e sulla salvaguardia dei luoghi, «perchè al centro di ben 5 siti di interesse comunitario è assurdo pensare di costruire una centrale a carbone». La lotta dei movimenti reggini continua, dunque, più forte che mai. A partire dalla «Giornata di mobilitazione nazionale contro il carbone» del 29 ottobre. L'appuntamento è alle 10 davanti ai cancelli della ex Sipi, nella discesa del porto. Arriveranno anche da Rossano e da altri luoghi simbolo della Calabria ferita e saccheggiata. Oltre 80 associazioni aderenti, e una buona partecipazione annunciata. Mentre la torre della Liquichimica è sempre lì. Arrugginita dall'incedere del tempo e da un modello di sviluppo fallimentare.

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