No al carbone Alto Lazio

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9 maggio 2012

Unicredit investe in carbone: petizione per farla smettere


Riportiamo da ecologiae.com 


"Nonostante in tutto il mondo ormai sia risaputo che le centrali a carbone siano tra le principali cause dei cambiamenti climatici, c’è ancora chi continua ad investire in questa fonte di energia sporca. Sono le banche, senza le quali nessuna impresa può sopravvivere. Ma avendo il coltello dalla parte del manico, proprio le banche potrebbero indirizzare gli investimenti in modo più sostenibile. Peccato che non lo facciano. Per questo laCoal Financing Campaign ha realizzato un video animato molto divertente ma che ci fa anche riflettere su questo aspetto.
Nonostante dai test risulti che i banchieri siano esseri umani, e come tutti gli esseri umani si preoccupino delle conseguenze del riscaldamento globale, di fronte ad un possibile investimento nel carbone continuino a dire di sì. Forse lo fanno perché essendo tutti abbastanza anziani, non si preoccupano del mondo che lasceranno ai loro nipoti, e per questo è compito nostro chiedergli di smetterla.
Questo gruppo di volontari ha così aperto un sito, dilloaunicredit.org, in cui ha pubblicato il video ed aperto una petizione per chiedere alla banca più importante d’Italia di smetterla di finanziare le industrie del carbone.
 
Sì perché il problema non riguarda soltanto le centrali che lo bruciano per produrre energia, emettendo CO2 ed altri gas serra, ma riguarda tutto l’indotto, dall’estrazione della materia prima al trasporto, fino allo smaltimento dei rifiuti residui della lavorazione. Le conseguenze sono devastanti non solo sull’ambiente ma anche sulla salute umana, compresa quella dei banchieri stessi che finanziano questo circolo vizioso. Ma a loro non sembra interessare.
Anche perché il costo maggiore lo pagano i comuni cittadini e l’ambiente sempre più devastato, di certo non loro. Secondo la denuncia dell’associazione, negli ultimi 5 anni Unicredit ha finanziato questo mercato per 5 miliardi di euro. Soldi che avrebbero potuto prendere la via delle rinnovabili, producendo la stessa energia ma senza tutte le conseguenze che conosciamo. Per questo è ora di dire basta e chiedere che gli investimenti vengano fatti nelle rinnovabili e nell’efficienza energetica e non più nell’industria inquinante. Perché, come dicono gli stessi attivisti, le alternative ci sono e le conosciamo tutti, anche Unicredit."

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10 dicembre 2011

Finanza che inquina: a rischio anche i risparmi, assieme alla salute

Riprendendo il recente articolo di Qualenergia,
"La finanza mondiale sta investendo in miniere di carbone e centrali, come mettere benzina nel motore di una macchina fuori controllo
[...]
Un problema che dovrebbe far insorgere gli azionisti di quelle stesse banche che stanno finanziando il carbone e le altre fossili, e non solo per il contributo al disastro climatico: gli investimenti in energie fossili infatti rischiano di essere anche un enorme boomerang economico, capace di far scoppiare una bolla paragonabile a quella dei mutui subprimes.
[Secondo il rapporto di Carbon Tracker Initiative]
governi e mercati globali stanno trattando come asset riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l'economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche."

La nostra politica insiste sul fatto che il sistema bancario italiano sia solido, quindi ci chiediamo se e in che modo è coinvolto nel rischio di cui sopra? Parte della risposta l'abbiamo dall'articolo del Manifesto "Il carbone di Unicredit":

"L'Unicredit negli ultimi cinque anni ha erogato oltre cinque miliardi di euro in finanziamenti destinati al settore dell'estrazione del carbone, il combustibile fossile che ha un impatto maggiore in relazione al fenomeno dei cambiamenti climatici.
A rivelarlo un rapporto presentato durante la conferenza dell'Onu sul clima in corso a Durban da alcune organizzazioni non governative internazionali, tra cui l'italiana Campagna per la riforma della Banca mondiale, coordinate dalla tedesca Urgewald. Lo studio, dal titolo Bankrolling Climate change, ha preso in esame il portafoglio prestiti dei 100 principali istituti di credito del pianeta. Dal 2005, ovvero da quando è entrato in vigore il protocollo di Kyoto, le banche hanno finanziato le 31 più importanti aziende estrattive e i più rilevanti 40 produttori di energia tramite carbone con una cifra di poco superiore ai 230 miliardi di euro.
Nella «speciale classifica» stilata dalle ong, l'italiana Unicredit si piazza quindicesima. Nelle prime tre posizioni troviamo tutte banche statunitensi: JP Morgan (16,5 miliardi), Citibank (13,7 miliardi) e Bank of America (12,6 miliardi). Nella top 20 sono annoverati anche istituti di credito di Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera, Cina e Giappone. Le ong definiscono queste banche, senza mezzi termini, «killer del clima».
Val la pena rammentare che le centrali a carbone hanno dei costi di realizzazione molto elevati. Per costruire un impianto in grado di produrre 600 megawatt servono almeno due miliardi di dollari: è chiaro che l'accesso al credito per le aziende del settore diventa un elemento fondamentale per continuare un business lucroso quanto inquinante. Non a caso tra il 2005 e il 2010 la portata dei finanziamenti è raddoppiata e, sostengono gli attivisti, qualora non si ponga un limite la crescita è destinata a continuare senza freno.
È senza dubbio singolare come tutte le banche ai primi posti di questa classifica abbiano sottoscritto in passato promesse molto ambiziose in termini di lotta ai cambiamenti climatici - tutte aderiscono a documenti di principio volontari che suonano molto bene evidentemente però disattesi dalla pratica quotidiana. I Carbon Principles e i Climate Principles, iniziative di natura volontaria, hanno così mostrato i loro limiti, proprio perché mancano qualsiasi tipo di vincolo: sono pure dichiarazione d'intenti senza alcun costrutto. O, peggio ancora, un utile strumento pubblicitario.
Nel caso dell'Unicredit, nonostante la banca abbia sottoscritto l'impegno di ridurre le sue emissioni di CO2, uno dei maggiori gas «di serra», del 30 per cento entro il 2020, continua a finanziare il business del carbone, e in particolare alcuni dei progetti più nefasti oggi sul mercato. Come ad esempio in Slovenia, dove la realizzazione dell'impianto TES6 vincolerà per i prossimi 40 anni ben l'80 per cento delle emissioni permesse al paese secondo gli accordi europei, sottraendo così soldi e opportunità per lo sviluppo del settore rinnovabile.
Secondo Bobby Peek, dell'organizzazione sudafricana Groundwork, «lo studio sbugiarda gli istituti di credito che con il loro operato stanno destabilizzando il clima, ma evidenzia come nuovi progetti minerari e di estrazione del carbone stanno trovando sempre più spesso una netta opposizione da parte delle popolazioni locali in tutto il mondo». Dopo le imprese, suggerisce Peek, è arrivato il momento di mettere pressione sulle banche, «nella speranza che prima o poi divengano degli attori climatici responsabili». Chissà se e quando tutto ciò succederà mai.

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