No al carbone Alto Lazio

10 dicembre 2011

Finanza che inquina: a rischio anche i risparmi, assieme alla salute

Riprendendo il recente articolo di Qualenergia,
"La finanza mondiale sta investendo in miniere di carbone e centrali, come mettere benzina nel motore di una macchina fuori controllo
[...]
Un problema che dovrebbe far insorgere gli azionisti di quelle stesse banche che stanno finanziando il carbone e le altre fossili, e non solo per il contributo al disastro climatico: gli investimenti in energie fossili infatti rischiano di essere anche un enorme boomerang economico, capace di far scoppiare una bolla paragonabile a quella dei mutui subprimes.
[Secondo il rapporto di Carbon Tracker Initiative]
governi e mercati globali stanno trattando come asset riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l'economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche."

La nostra politica insiste sul fatto che il sistema bancario italiano sia solido, quindi ci chiediamo se e in che modo è coinvolto nel rischio di cui sopra? Parte della risposta l'abbiamo dall'articolo del Manifesto "Il carbone di Unicredit":

"L'Unicredit negli ultimi cinque anni ha erogato oltre cinque miliardi di euro in finanziamenti destinati al settore dell'estrazione del carbone, il combustibile fossile che ha un impatto maggiore in relazione al fenomeno dei cambiamenti climatici.
A rivelarlo un rapporto presentato durante la conferenza dell'Onu sul clima in corso a Durban da alcune organizzazioni non governative internazionali, tra cui l'italiana Campagna per la riforma della Banca mondiale, coordinate dalla tedesca Urgewald. Lo studio, dal titolo Bankrolling Climate change, ha preso in esame il portafoglio prestiti dei 100 principali istituti di credito del pianeta. Dal 2005, ovvero da quando è entrato in vigore il protocollo di Kyoto, le banche hanno finanziato le 31 più importanti aziende estrattive e i più rilevanti 40 produttori di energia tramite carbone con una cifra di poco superiore ai 230 miliardi di euro.
Nella «speciale classifica» stilata dalle ong, l'italiana Unicredit si piazza quindicesima. Nelle prime tre posizioni troviamo tutte banche statunitensi: JP Morgan (16,5 miliardi), Citibank (13,7 miliardi) e Bank of America (12,6 miliardi). Nella top 20 sono annoverati anche istituti di credito di Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera, Cina e Giappone. Le ong definiscono queste banche, senza mezzi termini, «killer del clima».
Val la pena rammentare che le centrali a carbone hanno dei costi di realizzazione molto elevati. Per costruire un impianto in grado di produrre 600 megawatt servono almeno due miliardi di dollari: è chiaro che l'accesso al credito per le aziende del settore diventa un elemento fondamentale per continuare un business lucroso quanto inquinante. Non a caso tra il 2005 e il 2010 la portata dei finanziamenti è raddoppiata e, sostengono gli attivisti, qualora non si ponga un limite la crescita è destinata a continuare senza freno.
È senza dubbio singolare come tutte le banche ai primi posti di questa classifica abbiano sottoscritto in passato promesse molto ambiziose in termini di lotta ai cambiamenti climatici - tutte aderiscono a documenti di principio volontari che suonano molto bene evidentemente però disattesi dalla pratica quotidiana. I Carbon Principles e i Climate Principles, iniziative di natura volontaria, hanno così mostrato i loro limiti, proprio perché mancano qualsiasi tipo di vincolo: sono pure dichiarazione d'intenti senza alcun costrutto. O, peggio ancora, un utile strumento pubblicitario.
Nel caso dell'Unicredit, nonostante la banca abbia sottoscritto l'impegno di ridurre le sue emissioni di CO2, uno dei maggiori gas «di serra», del 30 per cento entro il 2020, continua a finanziare il business del carbone, e in particolare alcuni dei progetti più nefasti oggi sul mercato. Come ad esempio in Slovenia, dove la realizzazione dell'impianto TES6 vincolerà per i prossimi 40 anni ben l'80 per cento delle emissioni permesse al paese secondo gli accordi europei, sottraendo così soldi e opportunità per lo sviluppo del settore rinnovabile.
Secondo Bobby Peek, dell'organizzazione sudafricana Groundwork, «lo studio sbugiarda gli istituti di credito che con il loro operato stanno destabilizzando il clima, ma evidenzia come nuovi progetti minerari e di estrazione del carbone stanno trovando sempre più spesso una netta opposizione da parte delle popolazioni locali in tutto il mondo». Dopo le imprese, suggerisce Peek, è arrivato il momento di mettere pressione sulle banche, «nella speranza che prima o poi divengano degli attori climatici responsabili». Chissà se e quando tutto ciò succederà mai.

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9 dicembre 2011

Gli stabilimenti industriali più inquinanti in Italia, carbone ai primi posti


Dalla classifica recentemente stilata dall'Agenzia Europea per l'Ambiente (Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe), riportiamo la lista dei trenta stabilimenti industriali italiani più inquinanti:

  • enel - Centrale Federico II, Cerano, Brindisi (carbone)
  • ILVA Spa, stabilimento di Taranto
  • Saras Raffinerie Sarde S.P.A., Sarroch
  • Riva/Ilva - Centrali termoelettriche - Taranto (gas)
  • E.on - Centrale di Fiume Santo (olio, carbone, turbogas)
  • enel - Centrale "Andrea Palladio", Fusina (carbone, metano, olio, cdr)
  • Tirreno Power (Sorgenia) - Vado Ligure, Quiliano (carbone)
  • Edipower - Centrale di San Filippo del Mela (olio)
  • Esso italiana - Raffineria Esso Augusta
  • Eni - Raffineria di Sannazzaro De’ Burgondi
  • ISAB impianti - Raffineria Sud, Priolo Gargallo
  • enel - Centrale "Grazia Deledda" di Portovesme, Sulcis (olio)
  • enel - Centrale di "Torrevaldaliga Nord" TVN, Civitavecchia (carbone)
  • Raffineria di Milazzo S.C.p.A.
  • Eni - Stabilimento Di Ferrera Erbognone
  • enel - Centrale “Eugenio Montale”, La Spezia (carbone)
  • A2A - Centrale Termoelettrica Di Monfalcone (carbone, olio, biomasse)
  • S.A.R.P.O.M. S.r.l. - Raffineria di Trecate
  • Enipower S.P.A. - Stabilimenti di Brindisi (turbogas)
  • enel - Centrale "Pietro Vannucci", Bastardo (carbone)
  • Raffineria Api e impianto IGCC di Falconara Marittima
  • ERG - Centrali varie, Priolo Gargallo
  • enel - Centrale “Ettore Majorana”, Termini Imerese (olio)
  • Eni - Centrale di Ravenna (gas)
  • Eni - Centrale di Mantova (gas)
  • Tirreno power (Sorgenia) - Centrale "Torrevaldaliga Sud" TVS, Civitavecchia (turbogas)
  • enel "Tor del Sale", Piombino (olio)
  • ISAB IGCC, Centrale Priolo Gargallo
  • enel, Centrale Archimede, Priolo Gargallo (gas)

Neanche a dirlo, è folta la rappresentanza di centrali a carbone già in queste prime 30 posizioni, così come spicca l'aura pulita di enel, proprietaria di ben 9 stabilimenti sui 30 "primi" classificati.

Rispetto ai 622 stabilimenti europei presi in analisi, questi primi trenta ecomostri italiani si piazzano tra il 18esimo e il 401 esimo posto, con l'Italia quinta per emissioni in Europa, dietro Germania, Polonia, Regno Unito, Francia.

Per informazioni più dettagliate: Agenzia Europea per l'Ambiente (EEA), Registro Europeo delle emissioni

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Il clima cambia, la politica?

Da Greenpeace.it il resoconto di un'azione dimostrativa davanti a Palazzo Chigi

"Mentre il Ministro dell’Ambiente sta arrivando a Durban per la conferenza Onu sul clima, una cartolina dal caos climatico formato 14x5 metri è stata piazzata dai nostri climber davanti a Palazzo Chigi. Una tragica foto dell’alluvione di Genova accompagnata dalla scritta: "Il clima cambia. La politica deve cambiare".
zoom
In Piazza Colonna altri attivisti si sono arrampicati sui lampioni con il messaggio "A Durban salviamo il clima" e due attori hanno messo in scena la rappresentazione della politica che si rifiuta di cambiare. Vestiti e truccati come se fossero in un film in bianco e nero, hanno risposto alle domande dei giornalisti come se il problema del caos climatico non li riguardasse.

Quest’autunno una serie di tragiche alluvioni hanno martoriato l’Italia, da Nord a Sud. Genova, Roma e poi Messina. La morte di decine di persone e miliardi di euro di danni. Questi sono chiari segnali che i cambiamenti climatici stanno avendo un effetto sempre più grave anche a casa nostra.

L’azione di stamattina davanti alla sede del Governo rilancia quella che abbiamo promosso la settimana scorsa sul nostro sito: “Manda a Clini una cartolina dal caos climatico”. Più di 15 mila persone hanno già chiesto al Ministro dell’Ambiente di assumere a Durban una posizione forte e ambiziosa per la salvaguardia del clima e per il rinnovo del protocollo di Kyoto. Il Ministro darà ascolto ai cittadini o alle multinazionali dell’inquinamento?

Il governo precedente ha guidato l'Italia verso posizioni, a livello internazionale, sempre più di retroguardia nella lotta alle emissioni dei gas serra. Il Senato, in questa legislatura, ha addirittura approvato un atto che nega l'esistenza dei cambiamenti climatici e prende le distanze dalle politiche comunitarie a difesa del clima.

Da Piazza Colonna chiediamo al Ministro Clini e al nuovo Governo di cambiare la politica climatica del Paese. Con due mosse. La prima: impegno forte a Durban per ridurre le emissioni di gas serra. La seconda: difesa degli incentivi alle rinnovabili, un investimento per il futuro occupazionale e ambientale del Paese."

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In seguito all'azione dimostrativa non violenta, Salvatore Barbera, Responsabile della Campagna Clima ed Energia di Greenpeace, è stato espulso dal Comune di Roma per due anni

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Polvere di carbone fin sul Tetto del mondo

Fonte: Adnkronos
"Se l'inquinamento riesce ad arrivare a oltre 5.000 metri di altitudine, allora c'è davvero di che preoccuparsi. Secondo i dati contenuti nel progetto "Share" (Stations at high altitude for research on the environment), frutto di cinque anni di lavoro del comitato Ev-K2-Cnr e presentati a Durban, dal 2006 al 2010 nella regione dell'Everest si sono registrati oltre 150 giorni caratterizzati da picchi di inquinamento.

Coordinato da Paolo Bonasoni dell'Istituto di Scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr), il progetto "Share" ha costantemente monitorato la presenza di composti inquinanti e clima-alteranti presso la stazione globale Gaw-Wmo ''Nepal Climate Observatory - Pyramid'', a 5.079 metri di quota in Nepal, alle pendici del Monte Everest.
Il risultato è che tra marzo 2006 e dicembre 2010 ci sono stati oltre 164 giorni di inquinamento acuto, pari al 9% del totale del periodo analizzato, per lo più localizzati durante la stagione pre-monsonica (primaverile) quando si verifica il 56% dei giorni caratterizzati da picchi di inquinamento. Rispetto alla normalità, in questi giorni le concentrazioni dell'ozono aumentano del 29%, quelle del black carbon del 352%.
L'ozono troposferico è uno dei gas serra più pericolosi, mentre le particelle di ''carbone nero'' sono in grado di accelerare lo scioglimento dei ghiacciai. A portarli sul tetto del mondo sono stati i monsoni, che trasportano nubi inquinate e gas che provengono dalle aree industriali dei paesi dell'Asia del sud.
Il risultato? Gli abitanti di Dhe, di Sam Dzong e di altri villaggi d'alta quota hanno visto le sorgenti inaridirsi e hanno dovuto abbandonare una parte dei loro campi. I pascoli sono diventati rapidamente più aridi. In alcune zone le fonti di acqua per irrigare e dissetarsi si sono ridotte del 70-80%.
Le popolazioni locali della regione del Mustang, in Nepal, hanno chiesto lo status di rifugiati ambientali a causa delle mutate condizioni che stanno distruggendo la loro economia locale. Sulla questione è stato realizzato nella regione nepalese di Mustang il documentario "Mustang: il cambiamento climatico su tetto del mondo", di Stefano Ardito, prodotto da Ev-K2-Cnr.

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Legambiente al neoministro Clini: niente carbone a Saline Joniche.

Da InfoOggi.it
"Legambiente chiede al ministro dell’Ambiente Clini ed al governo Monti lo stop definitivo alla centrale a carbone di Saline Ioniche, un disastroso modello energetico, per poter favorire il rilancio turistico del territorio, attraverso un processo di innovazione tecnologica e rispetto dell’ambiente. Una ferma presa di posizione che arriva all’indomani dell’apertura possibilista del neo ministro all’Ambiente sull’investimento della società Repower e del Gruppo SEI che è sembrato palesarsi in occasione della sua visita in riva allo Stretto.

Una presa di posizione contro il carbone per affermare la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, che sottolinea la ferma opposizione tra le scelte energetiche e le idee di sviluppo necessarie per la Calabria e per il territorio ionico di Capo Sud. Nel corso dei lavori dell’XI congresso nazionale di Legambiente, i dirigenti del Cigno Verde hanno approvato all’unanimità una mozione che boccia l’idea di un impianto a carbone nell’area industriale dell’ex Liquichimica di Saline Ioniche. Primo firmatario del documento Nuccio Barillà, sostenuto dalla delegazione calabrese, dai dirigenti nazionali dell’associazione e dai delegati delle varie regioni. Legambiente si rivolge direttamente al nuovo governo chiedendo la sua massima attenzione sulla procedura autorizzativa, ancora in corso, per la realizzazione del sito. Le tesi generali sono quelle del movimento “no coke”: il via libera rappresenterebbe “un atto grave e pericoloso” che violerebbe l’impegno di ridurre i gas serra, “facendo aumentare di almeno 7,5 milioni di tonnellate annue le emissioni di CO2”. Una scelta che “peggiorerebbe la dipendenza energetica dall’estero e andrebbe in controtendenza rispetto alle indicazioni venute dal referendum sul nucleare”, e “costituirebbe una follia per la Calabria, regione che esporta energia per una quota superiore al 50% rispetto alla produzione e che ha scelto, attraverso un piano energetico, di escludere l’impiego del carbone e puntare sulle rinnovabili”.

Alle motivazioni ecologiche generali legate alle opzioni energetiche ed ai mutamenti climatici, gli ambientalisti aggiungono quelle che riguardano in prima persona i cittadini delle comunità dell’area Grecanica reggina. Prima di tutto, la rivendicazione del diritto alla salute e del diritto all’autodeterminazione, la scelta del carbone avrebbe effetti devastanti a causa dell’emissione di polveri ultrasottili e sostanze inquinanti su un territorio che ha enormi potenzialità turistiche ed ambientali e che ha già, in passato, pagato per delle scelte errate. Un progetto industriale come quello proposto dalla SEI, che richiede capitali alti ma non offre opportunità occupazionali e sociali, osteggia anche le scelte di sviluppo sostenibile che le istituzioni locali ed il territorio si sono dati. Gli esperti del Cigno Verde sostengono che: “lo stato attuale della ricerca non ha elaborato ad oggi nessun efficace miglioramento che consenta l’abbattimento della CO2, ed inoltre la tecnologia cook capture and storage di ‘sequestro geologico dell’anidride carbonica’, è ancora in fase di sperimentazione, ha costi elevati, per cui si dovrebbero attendere molti anni prima che diventi eventualmente matura”. Questa puntualizzazione scientifica dovrebbe chiudere ogni possibile dibattito.

Legambiente chiede al governo Monti ed al ministro all’Ambiente Clini di prendere atto della contrarietà espressa in piazza dalla gente e nelle sedi istituzionali dalla Regione Calabria e dal Ministero dei Beni culturali (nel precedente mandato) e “di rinunciare definitivamente al progetto di centrale, definendo piuttosto, di concerto con gli enti locali un programma di interventi alternativi per quell’area, capaci di ricreare un rapporto equilibrato tra uomo e natura e dare risposte occupazionali credibili e di qualità”. Una sfida ambiziosa: destinare risorse economiche, preziose in tempo di crisi, per fare dell’Area Grecanica un vero e proprio laboratorio di economia sostenibile e solidale. Una scelta impegnativa ma utile al Paese che avrebbe non solo il sostegno delle istituzioni locali ma anche l’appoggio degli ambientalisti, dell’associazionismo e dei cittadini.
L’unanimità del voto espresso dagli oltre 800 delegati ha ribadito, come sigillo finale, l’opposizione assoluta al carbone ed alle fonti fossili precedentemente emersa nella relazione del presidente nazionale Vittorio Cogliati Dezza.

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6/12/2011 - Legambiente denuncia la parzialità di Rai Calabria a favore della società Repower

Fonte
6 dic. - “Condanna per la parzialita’ dell’informazione pubblica regionale, questo e’ il primo sentimento che abbiamo provato, nell’aver assistito stamane al monologo da parte di Fabio Bocchiola amministratore delegato della SEI - societa’ milanese controllata da Repower, proprietaria dell’area industriale dell’ex Liquichimica di Saline Ioniche”. Lo afferma Vincenzo Falcone, direttore generale di legambiente Calabria, che aggiunge: “L’amministratore Bocchiola torna alla carica ripresentando per l’ennesima volta il progetto di riconversione dell’area industriale, illustrando i vantaggi della riconversione e i benefici su tutto il territorio, propinando il solito ritornello del “carbone pulito”, unica vera alternativa al petrolio e agli oli combustibile. Bocchiola non si e’ certo risparmiato in profusioni e termini favolistici per meglio conciliare una mattina di sana pubblicita’ presso una rete nazionale nel contenitore del Tgr Calabria “Buongiorno Regione”. Il rammarico e la forte condanna e’ pero’ la modalita’ adottata dalla testata giornalistica, tutta incentra a favore di Repower, con la totale assenza delle controparti contrarie al progetto di riconversione della centrale. Legambiente - continua - e’ stata piu’ volte citata durante il servizio, come a far capire che solo Legambiente e’ “in particolare” contraria ad una riconversione. Ci si dimentica che contro la riconversione della centrale di Saline Ioniche non c’e’ solo la voce forte e dura di Legambiente, ma anche di tutte le associazioni ambientaliste e di vari comitati cittadini. Sarebbe stato importante per i cittadini sentire anche in proposito la posizione politica del cigno verde. Riteniamo ingiusta la modalita’ pubblicitaria adottata stamane, che non si puo’ certo dire democratica e plurale. Riteniamo che fosse necessario da parte della testata giornalistica di Rai Tre Calabria invitare in studio anche le controparti per far meglio comprendere ai telespettatori le dinamiche che stanno investendo l’area dell’ex Liquichimica. E’ stato dato spazio solo al pensiero e alla volonta’ di Repower”

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Banche, chi finanzia il carbone e il riscaldamento climatico


Interessante lettura da Qualenergia.it

"Qualcosa proprio non quadra. Da una parte è evidente che investire ancora nelle fonti fossili vuol dire andare incontro ad un disastro climatico. Dall'altra i grandi della finanza continuano a scommettere decine di miliardi di dollari sulla fonte peggiore per il clima, il carbone. Il risultato è un mix esplosivo di rischio ambientale e finanziario: forse è già troppo tardi per scegliere tra un fallimento sul piano della lotta al global warming - nel caso gli investimenti delle banche andassero a buon fine e le centrali a carbone finanziate riuscissero a funzionare per il loro ciclo di vita - e una grossa bolla di investimenti, che scoppierà se le politiche per il clima impediranno alle fonti fossili di ripagare i finanziatori.

La prima affermazione, cioè che per evitare gli effetti peggiori del riscaldamento globale bisogna fermare immediatamente gli investimenti in fonti fossili, non viene da un'associazione ambientalista, ma dalla International Energy Agency. Nell'ultimo World Energy Outlook infatti si mostra come quattro quinti della quantità di emissioni massima per rimanere entro la soglia critica dei 2 °C sono già allocati dallo stock di capitale esistente, ossia impliciti in centrali industrie e altre infrastrutture in fase di realizzazione. Se entro il 2017, scrive l'Agenzia, non si farà inversione ci saremo già giocati la possibilità di contenere le emissioni abbastanza per tenere la concentrazione della CO2 sotto le 450 ppm, e dunque di fermare l'aumento della temperatura entro i 2 °C.

Quanto al secondo punto, è appena uscito un report che documenta ampiamente come e quanto le più grandi banche del mondo stiano investendo nel carbone: si intitola Bankrolling Climate Change. E' stato realizzato da una rete internazionale di ONG (la tedesca Urgewald, le sudafricane GroundWork e Earthlife Africa Johannesburg e il network internazionale BankTrack) e analizza gli investimenti di 93 tra le più grandi banche del mondo. Lo studio mostra come la finanza, al di là della mano di verde data alla facciata, il cosiddetto greenwashing, stia puntando ancora pesante sul nero, ossia sull'estrazione di carbone e sulle centrali.

Come si vede dai grafici (vedi in fondo) i nomi sono importanti e i numeri alti, anche se probabilmente sottodimensionati: si basano infatti solo sui dati consultabili pubblicamente. E la somma complessiva è in aumento negli ultimi anni (grafico qui sotto).


D'altra parte il carbone, questa fonte “del passato”, è tutt'altro che in declino: negli ultimi dieci anni ha soddisfatto quasi la metà dell'aumento della domanda di energia (1200 Mtep contro poco più di 1400 di tutte le altre fonti sommate, vedi grafico). In Europa – dicono i dati di Greenpeace - oltre un centinaio di nuove centrali sono in fase di progettazione o di realizzazione. In India 173 hanno già ricevuto il via libera per la costruzione, pari ad un aumento del 600% della potenza da carbone e in Cina se ne stanno realizzando circa due a settimana. Beffa aggiuntiva: parte di queste nuove centrali potrebbero ricevere aiuti destinati alla lotta al global warming (si veda qui), mentre procedendo a questo ritmo la Cina nel 2030 avrà emissioni di CO2 pari a quelle odierne dell'intero pianeta.

Non c'è bisogno di elencare le altre controindicazioni del carbone (ad esempio inquinamento e danni alla salute, il 7% del Pil nel 2007 in Cina e 30mila morti premature all'anno negli Usa) per capire che la finanza – investendo in miniere di carbone e centrali - sta mettendo la benzina nel motore di una macchina fuori controllo.

Un problema che dovrebbe far insorgere gli azionisti di quelle stesse banche che stanno finanziando il carbone e le altre fossili. E non solo per il contributo al disastro climatico: gli investimenti in energie fossili infatti rischiano di essere anche un enorme boomerang economico, capace di far scoppiare una bolla paragonabile a quella dei mutui subprimes.

Il perché lo spiega un altro report, di Carbon Tracker Initiative, di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi. In sintesi, una quantità enorme di denaro è impegnata in carbone, petrolio e gas che in un non così lontano futuro probabilmente non potranno essere estratti e bruciati. Investimenti spesso a medio e lungo termine compiuti anche da grandi fondi pensione e Stati senza guardare al quadro macro della situazione: con le politiche necessarie a limitare il riscaldamento globale, circa l'80% delle riserve su cui si è finora investito non potrà essere sfruttato.

Per ragionare con dei numeri forniti da CTI: le riserve in possesso delle 100 più grandi compagnie quotate nel carbone e delle 100 del petrolio ammontano ad un equivalente in CO2 di 745 Gt: 180 in più di quello che potremo bruciare fino al 2050 per stare sotto ai 2 °C. In aggiunta ci sono anche le riserve di proprietà degli Stati: ne emerge che di tutte le riserve controllate dalle grandi compagnie quotate, si potranno usare solo gas, carbone e petrolio per l'equivalente di 149 Gt CO2, ossia circa un quinto.

"Questo significa - denuncia lo studio – che governi e mercati globali stanno trattando come asset riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l'economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche.
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Commemorazione delle vittime di Monongah

Nello scorso 5/12 si è celebrato il ricordo delle centinaia di vittime tra i minatori di Monongah (USA)
Fonte
"L’Aquila, 05/12/2011 - Lo Stato del West Virginia e gli Italiani Americani ricordano la tragedia di Monongah, la nostra Marcinelle del 6 dicembre 1907. A Monongah, cittadina del West Virginia, nel cuore minerario degli Stati Uniti, si consumò un disastro che ufficialmente costò la vita a 361 minatori, dei quali 171 italiani. Stima per difetto perché i morti furono più di 900, di cui 500 italiani perché neanche un terzo dei minatori era registrato.
Fra le vittime decine di molisani ed abruzzesi emigrati in cerca di fortuna in America: alcuni di loro erano appena dei ragazzini. Alle vittime ufficiali sono da aggiungere bambini, amici e aiutanti che ogni minatore “regolarmente assunto” portava con sé senza l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro. Lo Stato del West Virginia ricorda Monongah con il Memoriale, il Monumento Heroine e l’Epigrafe ufficiali. Onoriamo l’emigrazione sepolta nel 104° anniversario. Vittime dimenticate per quasi un secolo a “Muh-nahn-guh” che nella lingua dei Nativi Americani “Seneca” significa “fiume dalle acque ondulate”.
(di Nicola Facciolini)

“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”(George Orwell). Le pagine della Storia ci conducono a Monongah, cittadina del West Virginia, nel cuore minerario degli Stati Uniti, dove il 6 dicembre 1907 si consumò una tragedia che costò la vita a 361 minatori, dei quali 171 italiani. Quattro minatori riuscirono a mettersi in salvo ma poi morirono per le ferite. Stima per difetto perché i morti furono più di 900, di cui 500 italiani perché neanche un terzo dei minatori era registrato. Fra le vittime decine di molisani ed abruzzesi emigrati in cerca di fortuna in America: alcuni di loro erano appena dei ragazzini. Alle vittime ufficiali sono da aggiungere bambini, amici e aiutanti che ogni minatore «regolarmente assunto» portava con sé, senza l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro. Onoriamo l’emigrazione sepolta e la memoria degli italiani di Monongah, martiri del lavoro e della speranza in un mondo migliore. Il 6 dicembre 2011 ricorre il 104° anniversario del maggiore disastro minerario americano, il più grave in assoluto nella storia estrattiva, ricordato con il nome della località USA in cui esplosero contemporaneamente due pozzi carboniferi. Lo Stato del West Virginia ricorda Monongah con il Memoriale, il Monumento Heroine e l’Epigrafe ufficiali. Monongah era un centro minerario con circa 3mila abitanti e una numerosa colonia italiana. Il 5 dicembre 1907 le miniere n. 6 e n. 8 erano rimaste chiuse per via della festa “congiunta” (oggi diremmo, “ponte”) di San Nicola e Santa Barbara. La Fairmont Coal Company, sussidiaria della Consolidation Coal Company, per risparmiare non mantenne in funzione il sistema di aerazione. L’esplosione delle ore 10:30 del mattino fu violentissima ed avvertita a chilometri di distanza. Il 19 dicembre 1907 un’altra deflagrazione porterà morte e lutto a Darr, in Pennsylvania. Anche qui numerose le vittime italiane tra le circa 400 che si contarono. L’elenco delle tragedie minerarie americane di quel periodo, simile a un martirologio, è una lista atroce e infinita. Ricordiamo i 22 morti di Bluefield (4 gennaio 1906); i 18 morti di Detroit (18 gennaio 1906); i 22 della miniera Parral (8 febbraio 1906); i 28 di Fayetteville (25 marzo 1906); i 28 di Pocahontas (3 ottobre 1906); i 12 di Buckhannon (20.1.1907); gli 80 della miniera Sewart di Fayetteville (29.1.1907). E, per l’Europa, il migliaio di Courrières (Francia settentrionale) del marzo 1906. Secondo fonti attendibili, circa mille persone persero la vita nella sciagura di Monongah. Alle vittime ufficiali sono da aggiungere bambini, amici e aiutanti che ogni minatore “regolarmente assunto” portava con sé, senza l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro. Per via del cottimo e per un maggiore guadagno. In seguito si sarebbero divisi il salario. “Buddy system”, lo chiamavano, il “sistema dell’amico o del compare”! La tragedia di Monongah per l’emigrazione italiana fu più grave di quella, ben più nota, di Marcinelle in Belgio avvenuta l’8 agosto 1956, in cui le vittime furono 262, delle quali 136 italiane. I morti in quell’orribile deflagrazione negli Usa sarebbero stati, infatti, secondo i resoconti giornalistici dell’epoca e le molteplici testimonianze che si sono avute, sicuramente oltre 900. Che cosa accadde a Monongah? Nel giorno di Babbo Natale (Santa Claus), il 6 dicembre 1907, fervono le speranze di un futuro migliore. Ma sta per consumarsi una delle più gravi tragedie della storia americana. Alle 10: 30 del mattino una violenta esplosione fa crollare le vene n. 6 e n. 8 della miniera più importante della contea. Un vero e proprio terremoto scuote la terra per oltre 13 chilometri, spazzando via case e strade, persone e animali. Sradica addirittura le rotaie della locale stazione ferroviaria. Laggiù, nelle viscere della Terra, 478 minatori uomini e ragazzi, con il viso annerito dal carbone e gli abiti dismessi, sono investiti in pieno dalla detonazione. Un misto di polvere di carbone e gas metano trasforma in pochi secondi i due tunnel in una camera ardente. Muoiono in 361. Sono americani (85), polacchi e russi (103), ma sono sopratutto italiani. Centosettantuno. Una cifra spaventosa che potrebbe addirittura salire fino a 500 italiani morti. Una corrispondenza da Washington del 9 marzo del 1908 (cioè dopo il completamento delle inchieste sulla tragedia) sostiene che “il bilancio dello scoppio della miniera di Monongah avrebbe raggiunto un totale di 956 vittime, la maggioranza delle quali era italiana...”. Nella miniera Bois de Crazier , a Marcinelle morirono in 262, l’8 agosto del 1956. Monongah con i suoi morti rappresenta oggi l’icona del sacrificio dei nostri lavoratori costretti ad emigrare per poter sopravvivere. Il merito di aver riportato alla luce questa triste pagina di storia italiana è del giornale “La Gente d’Italia”. Come documentarsi? Con il volume “Monongah!” di Luigi Rossi, basato su diversi elementi archivistici tratti da carte e appunti di don Giuseppe d’Andrea, sacerdote scalabriniano (originario con il fratello di San Rocco di Premia) che all’epoca seguì la colonia italiana di Monongah. L’opera gode dei patrocini della Regione Piemonte, della Provincia di Verbania e del Comune di Premia (con introduzioni del Presidente della provincia del Verbano - Cusio - Ossola e del Sindaco di Premia). È un libro singolare “Monongah!”. Un volume che segue il cammino della speranza di alcune centinaia di emigranti dell’Italia centrale e meridionale, capitati sui monti Appalachi, regione ricca d’antracite e morte. La Monongah dei pozzi carboniferi, ogni 6 dicembre, rivive la memoria dei suoi segni caratteristici: titoli rosso sangue, nomi che hanno in sé qualcosa di magico e maledetto, seguito da punti esclamativi dello stesso colore. Sullo sfondo un mosaico di volti, gli occhi spalancati sulle occhiaie scure d’una miniera carbonifera esplosa, rozze bare, un cielo grigio, piccoli minatori che sembrano spettri e chiedono di ricordarli. Volti e occhi di “gnomi” italiani del primo Novecento che si calavano nelle viscere del West Virginia e della Pennsylvania. In Illinois, Alabama, Colorado e Wyoming, Utah, Ohio e Kentucky. “Monongah!” è una testimonianza storica che segue il cammino della speranza di alcune centinaia di emigranti dell’Italia centrale e meridionale, capitati sui monti Appalachi, terra ricca d’antracite e morte. Opera nata e sviluppatasi a partire dal 2003, prima come racconto pubblicato nel 2005, poi completata da elementi archivistici e storici che ne fanno uno dei ritratti più veri e toccanti dell’Altra Italia, quella che, superato l’Atlantico, si lasciò dietro per sempre una Patria matrigna figlia di tanta retorica, di tanti furti, di tante ingiustizie perpetrate ai danni del Sud. Pochi sanno che quest’opera è nata dall’esemplare servizio del quotidiano “Gente d’Italia” di Miami che, nel 2003, denunciò la dismemoria di una delle maggiori tragedie della storia dell’emigrazione italiana.

Con le 361 vittime ufficiali, secondo il Monongah Mines Relief Committee, di nazionalità americana, tra le quali molte di colore, polacca, turca, slava o russa, ungherese, irlandese, lituana, scozzese, si scoprono 171 italiani provenienti da: Molise, Puglia, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Campania, Veneto. E un piemontese, originario di San Rocco di Premia: Vittore d’Andrea. I corpi ricuperati riposano sulla collinetta del “Calvario”. Vittime dimenticate per quasi un secolo a “Muh-nahn-guh” che nella lingua dei Nativi Americani “Seneca” significa “fiume dalle acque ondulate”. Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie, in bianconero o in un tenero originale “seppia”, scattate da fotografi che immediatamente le trasformarono in cartoline molto richieste. Così famose da invadere l’America del disinganno. “Monongah!” segue la colonia di minatori italiani passo passo. Sull’Oceano, nelle gallerie e “al giorno”, grazie a diversi documenti rintracciati dall’autore nel Center for Migration Studies di New York e riferibili alla mano ed alla penna di don Giuseppe d’Andrea, il sacerdote scalabriniano che operò nel centro minerario appalachiano per una decina d’anni, fratello di Vittore d’Andrea. Il sindaco del comune di Premia, Elio Martinetti, scrive nella presentazione del volume:“Il centenario del dramma di Monongah ci offre il modo di ricordare questi nostri due concittadini, insieme alla comunità italiana e alle sue vittime. Senza dimenticare tutti coloro che, sul finire del 1800 e nei primi decenni del 1900, abbandonarono la Valle Antigorio per i Paesi transoceanici. Abbiamo scelto di ricordarli con un’opera di narrativa, basata su elementi storici, corredata da diverso materiale fotografico. Pagine che coinvolgeranno, non solo emotivamente, chi si avvicina a Monongah ricordando idealmente tanti nostri concittadini emigrati Oltreoceano”.

Luigi Rossi, grazie al genere “narrative”, permette al Lettore di “vivere” a Monongah, di partecipare a momenti dedicati alla religione e all’organizzazione sindacale, all’apprendimento della lingua americana o alla nascita della banda musicale “Giuseppe Verdi”. Perché su Monongah si sparsero musica e suoni prodotti da una banda musicale “tutta italiana”. Ai dolori e gioie di questa comunità, come alle speranze e illusioni. Tra le pagine si rinvengono personaggi come Carlo (Tresca), Arturo (Giovannitti), Joe (Hill) o Mother Jones. O rimandi a quegli italo-americani che credevano nei movimenti sindacali, nell’unione e nella riscossa sociale. Accenni a un’Italia che prende finalmente coscienza di sé al di là dell’Oceano. Incontri, giornali, scioperi. Come quello di Lawrence (1912) o a Ludlow (1914), dove i miliziani spararono sugli scioperanti, uccidendo anche donne e bambini. Un movimento che ci donerà figure come Sacco e Vanzetti. Che sono le “radici” dell’America dei diritti e dell’uguaglianza, del pacifismo e della libertà. La nascita e lo sviluppo dell’associazionismo, la crescita del sindacalismo, le lotte politiche a difesa dei propri diritti e che abbracciano l’orario di lavoro, l’igiene, il vitto, il pacifismo e l’opposizione a quel capitalismo che si sta avviando alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale. Nell’epilogo di “Monongah!” il giovane narratore, originario di San Giovanni in Fiore, rimanda a chi colse la tragedia dell’emigrazione come un momento di riscatto e rinascita. Dove la “nuova lingua” è la chiave per una “nuova vita” in un “Nuovo Mondo”. “I am an American”, dice. È soprattutto il dolore a crescerti come cittadino. Proprio come accadde a Pascal d’Angelo. “Monongah!” si può considerare il completamento di una trilogia che vede l’emigrazione dal Piemonte orientale riversarsi in Europa e nelle Americhe. In questo lavoro l’emigrazione proveniente dall’Italia settentrionale si amalgama Oltreoceano con quella dell’Italia meridionale, quasi a formare – al di fuori dei confini nazionali – un’altra Nazione Unita che avrebbe fatto grande l’America nel mondo. Tra il 1901 e il 1915, ben 27 milioni di italiani emigrarono e 3 milioni e mezzo si diressero verso l’America del Nord, provenienti non solo dalle regioni dell’Italia meridionale e centrale, ma anche dal Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli. Una Italia disperata e “stracciona” che, per quasi un secolo, mantenne in vita con le sue “rimesse” la dissestata economia del Paese d’origine. La trilogia dell’autore d’origine veneta, ricorda la ricchezza storica, umana e culturale dell’Altra Italia. Una ricchezza che si dipana lungo i secoli e i millenni, dimenticata in Patria e raramente ripresa e riproposta.

Un’Altra Italia ancora mancante di un archivio centrale, di un museo nazionale, magari di un corso universitario che la ricolleghi alla storia del Paese d’origine. Di iniziative dedicate a un fenomeno sociologico, culturale ed economico cui i libri di storia dedicano una o due paginette. Luigi Rossi ricorda che “Le vittime di Monongah appartengono alla generazione dei dago, guinea, wop, chianti che generò, allattò e crebbe personaggi come Pietro Di Donato, Pascal D’Angelo e John Fante. E chi, con un cognome italico simile a un marchio, si troverà a vivere e operare in letteratura, cinema, teatro, imprenditoria, politica, altiforni, tratte ferroviarie, cantieri edili. Vivendo con dignità e orgoglio in quel Nuovo Mondo che sostituiva per sempre una Patria matrigna”. Della nostra epopea di emigranti non sappiamo molto. Dei successi e dei drammi che l’hanno costellata sappiamo poco e quel poco è spesso affogato nella retorica patriottarda del bravo italiano che sgobba e si fa voler bene da tutti. Non sempre – anzi quasi mai – è stato così. La storia dell’emigrazione italiana è piuttosto intrisa di dolore. Monongah è un dramma seguito qualche anno dopo, nel 1914, dal massacro di Ludlow in Colorado... Due tragedie, ma ne potremmo citare altre cento. Ricordare, confrontarci con la nostra grande Storia Italiana, di un popolo costretto a cercare fortuna all’estero, è utile per guardarci con un occhio diverso e vincere la crisi che oggi ci attanaglia. Per guardare con un pizzico di compassione in più la sofferenza di chi oggi bussa ai nostri confini per cercare un avvenire migliore. Che la lettura di questo libro sia il primo passo nell’approfondimento del fenomeno della migrazione: è l’augurio che facciamo a tutti coloro che si apprestano a leggere queste pagine, che rendono onore a quei nostri nonni dimenticati in terra americana, in quei profondi pozzi oscuri e nel fondo della nostra memoria collettiva.

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26 novembre 2011

MODA Savona: le gravi responsabilità di chi sostiene il carbone

Da Savonanews
"La Regione Liguria alla Conferenza dei Servizi di Roma del 13 Luglio 2011, con il totale assenso della Provincia di Savona e l'inefficace opposizione dei Comuni di Vado e Quiliano, ha approvato il pericoloso progetto di potenziamento a carbone della centrale di Vado proposto da T.Power: sì alla realizzazione di un nuovo gruppo a carbone da 460 MW. Solo al termine della costruzione del nuovo gruppo nel 2018, e quindi dopo circa 6 anni, verra' abbattuto uno dei due gruppi obsoleti (330 MW) che potra' essere sostituito da un ulteriore nuovo gruppo a carbone da 460 MW e dopo addirittura 9 anni ( 2021) verrà abbattuto il secondo obsoleto gruppo a carbone che potrà essere anch'esso sostituito da un nuovo gruppo a carbone.

Oggi in un comunicato stampa l'Assessore all'Ambiente della Regione Briano vuole rassicurare la popolazione dichiarando "imprenscindibile l'ottenimento dell'AIA" anche se ammette che "la situazione ambientale diventa sempre più insostenibile". In ogni caso dichiara: "L'obiettivo è chiudere l'intesa entro Dicembre".

Queste le nostre considerazioni:

Violazione delle normative della Unione Europea (Direttive AIA IPPC- 2005) e della normativa italiana (Dlgl. 128/2010) in quanto si accetta che i vecchi gruppi a carbone possano continuare a inquinare da oggi almenoper altri 9 anni ( fino al 2021) con emissioni inquinanti ben al di sopra dei limiti AIA come ammesso dalla Regione stessa e come riconosciuto anche dal Ministero dell’Ambiente.

Tradimento della posizione sostenuta fino a ieri dalla Regione (NO al potenziamento a carbone) perché in realtà l'accordo di Burlando è un POTENZIAMENTO A CARBONE: dai 660 MW attuali si passerà a circa 1.400 MW con 3 gruppi a carbone (+ 760 MW a gas) .

Mantenimento della possibilità di bruciare il CDR (combustibile da rifiuti) nella centrale a carbone come previsto nel Piano Provinciale Rifiuti a pa g. 170 approvato dalla Giunta regionale con aggravamento dell’inquinamento per la produzione massiva di diossine e metalli pesanti cancerogeni e genotossici in quantità maggiori di un già pericoloso moderno inceneritore di rifiuti.

Accettazione supina delle condizioni imposte da un’ azienda privata (T. Power) senza tenere in alcuna considerazione i risvolti sanitari per le malattie e le mortalità precoci indotte dall’inquinamento come relazionato dall’Ordine dei Medici della Provincia di Savona e come documentato ormai da più di 40 annni dalle Associazioni presenti sul territorio (costi esterni stimati secondo i criteri Ue di almeno 140 milioni euro/anno)

Decisione della Regione di chiudere la piccola centrale di Stato (ENEL) a Genova per motivi di obsolescenza e di emissioni inquinanti, mentre nello stesso tempo si decide di promuovere il potenziamento a carbone a Savona-Vado di una grande centrale a carbone privata in pieno centro abitato (centrale in città) .

Posizione retrograda dei sindacati che condividono totalmente le richieste dell’industria privata di T. Power in quanto per una manciata di posti di lavoro, accettando il potenziamento a carbone, accettano il peggioramento dell’inquinamento contro il diritto alla salute dei cittadini e degli stessi lavoratori della centrale. Perché allora i Sindacati hanno taciuto di fronte al drammatico crollo occupazionale quando nel passaggio da ENEL(anno 1985) ai privati di T. Power (anno 2006) l’occupazione in centrale si è dimezzata da 556 a 224 unità?

Ribadiamo ancora una volta l’unica posizione eticamente accettabile (votata da molti Comuni e dalla Provincia di Savona nel 1995 e nel 1998 e sostenuta da ACLI, ARCI, Ordine dei Medici ecc.) nei confronti di un territorio che da più di 40 anni è stato massacrato dall’inquinamento del carbone:

Depotenziamento e metanizzazione o almeno metanizzare completamente la centrale Tirreno Power sostituendo gli obsoleti vecchi gruppi a carbone (che vanno immediatamente chiusi) con moderni gruppi a metano (ccgt) di uguale potenza visto l’ingente investimento di circa 1 miliardo di euro che Tirreno Power prevede di spendere per l’impianto.

Concludendo vogliamo sottolineare che gli enti locali come regione, provincia, sindacati e ministeri che sono a favore del potenziamento a carbone si prendono tutte le responsabilità politiche, morali e legali per tutte le mortalità precoci ed i danni economici che si produrrano a seguito di questo scellerato utilizzo del carbone nella locale centrale t. Power di Vado. A tal proposito attendiamo ancora il rimborso alla popolazione da parte di Tirreno Power dei costi esterni (140 milioni di €/anno) per tutti questi anni di funzionamento a carbone.

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Bassano Romano, si fa scempio di faggi secolari

Da Occhioviterbese
"A Bassano Romano (VT) si sta verificando uno scempio naturale con l'abbattimento della faggeta, una rarità per la sua posizione (circa 550 m slm), per la presenza di faggi secolari.

La Faggeta rientra nel Parco Naturale Regionale di Bracciano – Martignano quindi “teoricamente” un'area protetta.

Il bosco Montevano Cavoni è denominato, dalla Comunità Europea, Sito di Interesse Comunitario (S.I.C.) e Zona a Protezione Speciale (Z.P.S.) per le specie rare che ospita, come la Rosalia Alpina, un insetto lungo circa 38 mm che si nutre di legno secco ed è per questo che il Piano Regionale di Assestamento Forestale ha previsto di lasciare un albero secco in piedi, ogni ettaro, per la conservazione dell'ambiente favorevole alla Rosalia Alpina.

La Rosalia Alpina, è stata integrata nelle specie protette dalla Convenzione di Berna e nella Direttiva 92/94/CEE del Consiglio Europeo.

Le “Sentinelle del Bosco” di Bassano Romano, nell’Anno Internazionale delle Foreste, fanno richiesta all’Ente Parco Bracciano Martignano perché i primi due, degli ultimi Faggi secolari del bosco di Bassano Romano (Fagus Silvatica L.) siano segnalati all’Arp Agenzia Regionale Parchi per essere salvaguardati come Monumenti Nazionali ed inseriti nella cartografia del Parco Bracciano Martignano.

Tali esemplari si trovano nella zona della Faggeta di Bassano Romano, Località Fonte Vitabbia, coordinate geografiche:

42° 11’ 13.21” N – 12° 10’ 41.30” E



Circonferenza tronco ad 1 metro da terra:

FAGGIO 1 m. 4,60

FAGGIO 1B m. 4,50

FAGGIO 2 m. 4,15

FAGGIO 3 m. 4,10

FAGGIO 4 e 5 m. 4,00

Tali colossi della Foresta sono secondari solo al Faggio di 5 metri di circonferenza che si trova in località Dispensa, nel Parco Nazionale del Gargano.

Per questo chiediamo che, nell’anno dedicato alle Foreste, vengano valorizzati e protetti come valore primario di vita, che giunge dal passato ed ormai patrimonio dell’Umanità.

Le Sentinelle del Bosco di Bassano Romano, pur essendo consapevoli del Piano di Assestamento Forestale che prevede tagli intercalari per il Bosco Ceduo, ritengono che l’area protetta della Faggeta millenaria a 500 metri di livello non sia stata adeguatamente preservata, vista l’unicità del valore naturalistico che riveste come patrimonio non solo dei bassanesi, ma dell’intera umanità. Pertanto si dissociano da questo sistema di tagli in Faggeta, rendendo a conoscenza che, in alcune parti, si tratta di vero e proprio scempio, come è visibile dalle foto. Inviano tale informazione a chi di competenza perché si provveda al più presto all’arresto di tale oltraggio naturalistico.

Le Sentinelle del bosco e la Protezione Civile di Bassano Romano si dissociano da tale “assestamento forestale”, in quanto addestrati a difendere gli alberi dagli incendi naturali e non dallo scempio umano.

Nelle zone dove sono già stati effettuati i tagli, nessuno di questi giganti è rimasto in piedi…

Enza Ferri - Responsabile Sentinelle del Bosco
Protezione Civile
Alessandro Moroni - Cittadino

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Il "Pirate Party" italiano è critico verso l'energia dal carbone

Da VocedItalia
"Mentre Assocarboni annuncia l’incremento del 7% delle importazioni di carbone in Italia per l’anno 2011 (a fronte di una media globale che raggiunge a malapena i cinque punti percentuali) il Partito Pirata critica le scelte della politica energetica made in Italy, scelte che non prendono in considerazione i fenomeni globali, gli impegni internazionali e il rispetto per l’ambiente.
“L’Italia dopo aver archiviato la pratica nucleare – fa sapere l’ingegner Marco Masini, responsabile nazionale delle politiche energetiche e ambientali del Partito Pirata – cerca ora di soddisfare la fame di energia con il carbone. Ma se il nucleo atomico ha problemi, il carbone ne ha ancora di più. Non si può turare una falla con un cavatappi!”.
“L’intensità energetica del carbone è molto inferiore a quella del petrolio, e ha un contenuto di carbonio molto più alto. Questo determina un grande potere inquinante, che si può limitare solo a fronte di ingenti investimenti”. Senza poi dimenticare il trasporto stesso, “che induce un fenomeno di inquinamento indiretto molto importante, e di certo maggiore rispetto a quello del petrolio”.
Esistono altre soluzioni, ci sono altre strade da seguire. “Il geotermico italiano, dopo una fase iniziale di espansione ed interesse che ha fatto dell’Italia un’apripista con i giacimenti di Larderello, ha smesso di investire in questa direzione. Non ci sono investimenti in ricerca e in sviluppo sufficienti, e non si pensa strategicamente al contributo delle rinnovabili. Che possono giocare un ruolo significativo”.

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Contro il business sporco del carbone, i successi dei Movimenti

Articolo di M. Cardone su Qualenergia.it: "Carbone Usa, una guerra che si vince dal basso

Per l'ambientalismo americano è il carbone il nemico numero uno. Basta un numero per rendersene conto: 250, sono le associazioni statunitensi impegnate nella guerra al carbone. Una fonte fossile che non piace perché responsabile di un inquinamento atmosferico che crea enormi danni alla salute, senza portare alcun beneficio alla società: secondo la ricerca Environmental Accounting for Pollution in the United States Economy, pubblicata sull'American Economic Review, per ogni dollaro di valore aggiunto generato dall'industria del carbone, ci sono 2,2 dollari di danno esterno. Una volta internalizzati i costi della sanità, alla società non conviene produrre energia dal carbone.

Gli scienziati di tutto il mondo, inoltre, additano il carbone come causa dei cambiamenti climatici, risorsa energetica del passato, ad altissimo contenuto di CO2.

Attivismo e scienza concordano sul fatto che bloccare o ridurre drasticamente lo sfruttamento delle risorse carbonifere, non potrebbe che fare bene al Pianeta. Il climatologo James Hansen, direttore del Nasa Goddard Space Institute, ha detto più volte che eliminare le emissioni da carbone rappresenterebbe l’80 per centro della soluzione alla crisi del riscaldamento globale. La società americana sembra convinta della necessità di combattere questa battaglia. Le azioni di disobbedienza civile si moltiplicano e tante sono le vittorie.

Ted Naceè il coordiantore del sito web Coal swarm con cui, dal 2007, segue lo stato di avanzamento di tutti i progetti di centrali in attesa di autorizzazione. Nel 2008, in collaborazione con il Center for media and democracy, Nace ha avviato il CoalSwarmWiki, una sorta di Wikipedia delle lotte al carbone, dove si possono consultare 3.500 articoli con tutte le informazioni sullo sfruttamento di questa fonte e sulla mobilitazione a livello globale.

“Dai numeri è chiaro che stiamo vincendo: sono 230 le centrali di cui è in programma la chiusura – dice Nace – Anche se a Washington non siamo riusciti a portare a casa quasi nessun risultato, la pressione ambientalista sta condizionando l'industria”.

Per trovare un movimento ecologista altrettanto forte e strutturato bisogna andare indietro fino alle lotte contro il nucleare degli anni ‘70 e ’80, che riuscirono a far cancellare 100 progetti negli Usa. La guerra al carbone sta andando anche meglio: secondo l’associazione ambientalista Sierra Club, che, come parte della campagna Stopping the coal rush, raccoglie in un database informazioni sul settore del carbone, tra il 2005 e il 2010, sono stati cancellati 150 piani per la realizzazione di nuove centrali.

La corsa al carbone in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto lanciarsi per garantirsi energia nazionale a basso costo è stata frenata da una forte opposizione e da un mercato che non sembra troppo convinto della bontà di questo investimento. Nel 2000 erano 151 le richieste di permesso per nuove centrali, di queste, nel 2007, solo 40 erano state finalizzate. Altre richieste e altre cancellazioni sono seguite negli anni successivi e oggi il database del Sierra club include 244 progetti.

Meriterebbe un discorso a sé il capitolo mountain top removal. Questa pratica di estrazione del carbone, dal forte impatto ambientale, è diffusa nelle regioni dei monti Appalachi dove, sta creando non pochi nemici all’industria del settore e mettendo in difficoltà gli investitori (tra cui grandi gruppi bancari come JP Morgan-Chase bank). In questo autunno di proteste, il mountain top removal è stato additato come uno dei simboli dell’avidità delle corporation e, da problema locale, è diventato argomento di interesse nazionale.

Il movimento anti carbone si appoggia alle grandi associazioni ambientaliste, ma la sua forza sono i gruppi locali dal basso che, attraverso un rapporto diretto con il territorio e con la controparte, stanno riuscendo a corrodere le basi dell’industria del carbone. Ted Nace, che ha scritto un libro sul movimento anti carbone, ci spiega come queste azioni dal basso stanno riuscendo a minare il sistema: “Si inizia col cercare di ritardare il progetto. Basta un’azione legale o in alcuni casi è sufficiente che i cittadini manifestino pubblicamente le proprie preoccupazioni e chiedano chiarimenti. Se il piano viene ritardato si inizia a corrodere la fiducia degli investitori o dei finanziatori pubblici. Naturalmente il tutto è reso più facile dal fatto che l’industria è già debole di per sé. Le nuove regole, che impongono costosi sistemi di trattamento e depurazione, hanno messo in forte difficoltà il settore. Oggi produrre energia dal carbone non è più economico”.

A livello locale, l’opposizione al carbone cresce costantemente ed è riuscita a bloccare diversi progetti di nuove centrali. Vittorie ottenute con la complicità delle incertezze economiche legate al settore dei combustibili fossili e della crescita delle rinnovabili. Vittorie che, nate in ambito locale, hanno un riflesso globale in quanto mostrano che i mercati internazionali sono in grado di riorientarsi verso energie pulite. “Secondo le previsioni l'industria del carbone Usa avrebbe dovuto crescere del 20 per cento negli ultimi dieci anni e invece abbiamo assistito a una riduzione della stessa percentuale. E ora anche Cina e India stanno iniziando a mettere in discussione gli investimenti sul carbone e a cancellare alcuni progetti di nuove centrali. Se riusciremo a evitare che questi paesi installino nuova capacità, potremo uscire dal carbone con la sola forza di auto-regolamentazione del mercato”.

La transizione verso le rinnovabili è possibile: la disponibilità di fonti alternative al carbone aumenta costantemente così come cresce la competitività di queste risorse. Secondo una mappatura realizzata dalla Southern Methodist University di Dallas, in collaborazione con Google, il potenziale geotermico degli Stati Uniti equivale a dieci volte la capacità installata in tutte le centrali a carbone americane. In Texas, che non è uno stato tradizionalmente associato alle rinnovabili, l’eolico produce tanta energia quanto il carbone. Intanto il fotovoltaico americano si sta avvicinando a quella sostenibilità economica che, entro il 2018, dovrebbe renderlo competitivo sui mercati.

Va detto, tuttavia, che nello scenario delle alternative si sta facendo strada soprattutto il gas naturale che molti considerano una fonte ponte per realizzare l’uscita dal carbone. E, quando si tratta di gas di scisto, il rischio è di cadere dalla padella alla brace.

Ma si fa tutto nel tentativo di dire addio a un'industria che non può nemmeno giocarsi la carta dei posti di lavoro: “Ci sono solo cinque stati in cui il numero dei lavoratori del settore – riprende Ted Nace – tocca le cinque migliaia. In passato il carbone dava lavoro a 800.000 persone in tutto il paese, ora sono 83.000, mentre l'eolico conta 85.000 addetti. È un'industria da 50 miliardi di dollari: Bill Gates da solo potrebbe comprarla tutta. Però è un'industria vecchia, che quindi sa giocare al gioco della politica meglio di quanto non sappia fare la giovane industria delle rinnovabili”.

In attesa che gli operatori del clean teach imparino a muoversi tra i banchi del Congresso, lo scorso luglio l'Epa (Environmental Protection Agency) ha presentato il Cross-State Air Pollution Rule (Csapr), una regolamentazione che chiede a 27 stati di ridurre le emissioni delle proprie centrali elettriche. Dove non arriva il mercato, una mano dalle istituzioni non guasta.

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