No al carbone Alto Lazio

9 maggio 2012

Unicredit investe in carbone: petizione per farla smettere


Riportiamo da ecologiae.com 


"Nonostante in tutto il mondo ormai sia risaputo che le centrali a carbone siano tra le principali cause dei cambiamenti climatici, c’è ancora chi continua ad investire in questa fonte di energia sporca. Sono le banche, senza le quali nessuna impresa può sopravvivere. Ma avendo il coltello dalla parte del manico, proprio le banche potrebbero indirizzare gli investimenti in modo più sostenibile. Peccato che non lo facciano. Per questo laCoal Financing Campaign ha realizzato un video animato molto divertente ma che ci fa anche riflettere su questo aspetto.
Nonostante dai test risulti che i banchieri siano esseri umani, e come tutti gli esseri umani si preoccupino delle conseguenze del riscaldamento globale, di fronte ad un possibile investimento nel carbone continuino a dire di sì. Forse lo fanno perché essendo tutti abbastanza anziani, non si preoccupano del mondo che lasceranno ai loro nipoti, e per questo è compito nostro chiedergli di smetterla.
Questo gruppo di volontari ha così aperto un sito, dilloaunicredit.org, in cui ha pubblicato il video ed aperto una petizione per chiedere alla banca più importante d’Italia di smetterla di finanziare le industrie del carbone.
 
Sì perché il problema non riguarda soltanto le centrali che lo bruciano per produrre energia, emettendo CO2 ed altri gas serra, ma riguarda tutto l’indotto, dall’estrazione della materia prima al trasporto, fino allo smaltimento dei rifiuti residui della lavorazione. Le conseguenze sono devastanti non solo sull’ambiente ma anche sulla salute umana, compresa quella dei banchieri stessi che finanziano questo circolo vizioso. Ma a loro non sembra interessare.
Anche perché il costo maggiore lo pagano i comuni cittadini e l’ambiente sempre più devastato, di certo non loro. Secondo la denuncia dell’associazione, negli ultimi 5 anni Unicredit ha finanziato questo mercato per 5 miliardi di euro. Soldi che avrebbero potuto prendere la via delle rinnovabili, producendo la stessa energia ma senza tutte le conseguenze che conosciamo. Per questo è ora di dire basta e chiedere che gli investimenti vengano fatti nelle rinnovabili e nell’efficienza energetica e non più nell’industria inquinante. Perché, come dicono gli stessi attivisti, le alternative ci sono e le conosciamo tutti, anche Unicredit."

Leggi tutto il post...

"Che aria tira" - Civitavecchia sabato 12 maggio


Leggi tutto il post...

8 maggio 2012

Carbone e fabbisogno idrico, i problemi dell''industria energetica cinese

Da Greenreport

"Christina Larson, una giornalista che si occupa di tematiche ambientali internazionali per The New York Times, The International Herald Tribune e The New Republic, scrive su "Yale Environment 360"  che « Nella sua ricerca per trovare nuove fonti di energia, la Cina si rivolge sempre più alla ricerca di sue province occidentali. Ma la spinta della nazione a sviluppare fonti alternative ai combustibili fossili ha finora ignorato un fatto fondamentale: la Cina occidentale non ha semplicemente le risorse idriche necessarie per sostenere un nuovo  importante sviluppo energetico». La Larson spiega: «Se si sorvolasse la grande distesa della Cina continentale durante la notte, si troverebbero ammassi di luci intorno alla costa orientale: città tentacolari e popolose come Pechino, Tianjin, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen. Ma più lontano si viaggia verso ovest, meno si incontrano queste megalopoli illuminate» La Cina ha grandi città anche all'interno, ma sono meno numerose e più piccole delle megalopoli costiere cresciute senza controllo e gonfiate dall'immigrazione, dove si concentrano gli affari, le industrie ed il fabbisogno energetico cinese. Ma le risorse energetiche della Cina, sia rinnovabili che quelle dei combustibili fossili, si trovano soprattutto nelle sue regioni periferiche (e spesso problematiche), come quella nord-occidentale del Gansu, poco popolata, ventosa e  soleggiata, che è rapidamente diventata un hub dello sviluppo dell'energia eolica e solare. Mentre le miniere di carbone delle regioni orientali si stanno rapidamente esaurendo  (o non sono più economicamente sfruttabili) le nuove frontiere del carbone cinese si sono spostate nelle regioni autonome  della Mongolia e dello Xinjiang,Uigur e nelle province occidentali di Qinghai, Ningxia, Shanxi, Shaanxi e Gansu, tutte molto lontane da dove l'energia prodotta dal carbone verrà consumata, «E questo è un guaio - spiega la Larson - Il trasporto del carbone dalle miniere occidentali su lunghe distanze, via ferrovia o camion, o chiatte lungo il fiume Yangtze, è un'impresa costosa e fastidiosa». Le spese di trasporto possono arrivare ad oltre il 50% del costo finale del carbone e in condizioni meteorologiche avverse il trasporto diventa problematico. Nel 2008 una tempesta di neve nella Cina sud-orientale bloccò le principali linee ferroviarie e la mancanza di carbone provoco blackout in diverse città sud-orientali La grave siccità dell'estate 2011 ha impedito il transito delle chiatte di carbone sul basso corso dello Yangtze, e la più grande utilty elettrica di Shanghai annunciò blackout a rotazione nelle industrie della città più ricca e moderna della Cina. Il regime comunista è corso ai ripari e nell'ultimo piano quinquennale prevede un aumento della produzione di carbone e l'eliminazione dei "colli di bottiglia" per facilitare il suo trasporto dall'interno verso la costa. Ma prevede anche lo sviluppo e l'espansione di 14 grandi "coal-industry basis" in tutta la Cina occidentale dove chiudere il ciclo del carbone: estrazione, trasformazione e utilizzo nelle centrali termoelettriche, poi l'energia prodotta verrà convogliata da una nuova colossale rete di distribuzione  verso le città orientali. «Ma gli impatti ambientali della realizzazione di tali piani non sono stati ancora pienamente considerati - sottolinea la Larson - In Cina oggi l'80% dell'elettricità totale è prodotta dal carbone. Sì, è vero che è in aumento anche il contributo da fonti rinnovabili, forse avete visto le foto di nuove scintillanti turbine eoliche nei deserti della Cina, ma l'energia verde non sta attualmente sostituendo le fonti fossili, le sta integrando. Entrambe sono in rapida crescita». Secondo i dati del Dipartimento dell'energia Usa, tra il 2000 e il 2010, il consumo totale di carbone della Cina è triplicato, la dipendenza della Cina dal carbone quindi non finirà presto, come a volte sembra voler far credere il governo annunciando la chiusura di vecchie miniere e centrali, ma continuerà a lungo. Però la realizzazione dei complessi carbonifero-energetici nelle regioni occidentali sta affrontando un inaspettato quando insormontabile ostacolo: l'industria del carbone ha bisogno di enormi quantità d'acqua  (più di un  quinto del consumo di acqua della Cina deriva proprio dal complesso carbonifero-energetico), ma gran parte della Cina occidentale è già colpita dalla siccità e dalla desertificazione». «La parte occidentale della Cina è un'area ecologicamente fragile - spiega Wang Xiujun, un climatologo dell'Istituto Xinjiang di ecologia e geografia e dell'università del Maryland - Non c'è molta acqua da sprecare» e Sun Qingwei, climate and energy campaigner di Greenpeace China, che prima lavorava per un centro di ricerca governativa nella provincia del Gansu, sottolinea: «Quando una nuova industria arriva in una città, l'acqua viene garantita da laghi e fiumi, dal pompaggio delle acque sotterranee e dalla costruzione di dighe per stoccare l'acqua piovana, il che devia il suo flusso normale e il riassorbimento nel terreno. Tutti e tre hanno conseguenze ambientali impreviste. Non c'è acqua a sufficienza per sostenere così tante attività e industrie del carbone nella Cina occidentale. Se le risorse idriche vengono sfruttate dall'industria del carbone, questo porterà al degrado del suolo e alla desertificazione e danneggerà il sostentamento delle comunità locali». Greenpeace China sta lavorando ad un rapporto e ad una mappatura della disponibilità di acqua nella Cina occidentale per ostacolare la realizzazione dei mega-impianti carboniferi. Un pessimo esempio  di quel che potrebbe succedere esiste già nella Mongolia Interna, dove le praterie si stanno trasformando in quella che i mongoli chiamano "una ciotola di polvere". Negli ultimi 10 anni, mentre venivano realizzate miniere di carbone, impianti petrolchimici e centrali elettriche, alimentati da pozzi, le falde idriche sprofondavano  e grandi praterie, come quella di Xilingol, sono diventate improduttive e la zona umida di Wulagai si è completamente prosciugata. «L'industria del carbone ha cambiato l'ambiente in quanto utilizza l'acqua del sottosuolo - ha detto alla Larson  il ricercatore Da lintai, che lavora all'Inner Mongolian University - Probabilmente anche il cambiamento climatico ha contribuito alla desertificazione nella Mongolia Interna. Il risultato è che è più difficile ora per i pastori  trovare aree con risorse idriche sufficienti. E la mancanza di acqua influenza anche la crescita dell'erba per nutrire i loro animali». Nel maggio 2011, vicino Xilinhot, nella Mongolia Interna, un pastore è stato ucciso da un camion che trasportava carbone, le violente proteste avvenute dopo l'incidente sono state presentate dalla stampa cinese come disordini etnici, perché il pastore apparteneva alla minoranza mongola e l'autista era un cinese han, ma la gente del posto dice che le divisioni etniche non c'entrano niente e  di essere arrabbiata con gli autisti dei camion che trasportano il carbone perché rappresentano il simbolo di un'industria odiata, che con il suo  arrivo ha distrutto i loro mezzi di sussistenza e il loro ambiente. Il  governo cerca di affrontare il problema con il risparmio dell'acqua: nella Ningxia è stata inaugurata nel 2010 una centrale a carbone raffreddata ad aria che utilizza un quinto dell'acqua necessaria nelle altre centrali, ma i costi di costruzione di questi nuovi impianti sono moto più elevati di  quelli tradizionali  e si stanno rivelando un ostacolo per una loro adozione diffusa. «Quel che sta gradualmente diventando evidente, in Cina come altrove, è che l'energia e l'acqua devono essere pianificate insieme» ha detto Jennifer Turner, direttrice del  Woodrow Wilson Center's China Environment Forum, durante un recente meeting, ospitato dall'ufficio di Pechino di Nature Conservancy. La Turner ha definito la cosa «Nesso acqua-energia» ed ha concluso: «La necessità di salvaguardare l'acqua in Cina è oggi particolarmente urgente, perché, con il cambiamento climatico, la Cina sta già perdendo acqua ogni anno».e

Leggi tutto il post...

6 maggio 2012

Carbone a Saline Joniche: sondaggio WWF sulla popolazione

Riportiamo da Alternativasostenibile:

Un nuovo sondaggio, stilato dall'istituto di ricerca ISPO su incarico del WWF Svizzera, mostra chiaramente come la maggioranza della popolazione della provincia di Reggio Calabria sia contraria alla costruzione della centrale a carbone di Saline Joniche per opera della SEIRepower, che ha sede a Poschiavo, nel Cantone dei Grigioni. Ben il 61% degli interpellati è contrario alla sua costruzione (di cui il 37% molto contrario), mentre solo il 26% è favorevole (solo il 5 per cento molto favorevole). Inoltre, il 57% degli intervistati sa che le centrali a carbone hanno un impatto diretto sull'inquinamento del territorio circostante e aggravano i cambiamenti climatici; il 65% crede che la centrale porterà "danni alla salute e all'ambiente", e il 60% ritiene che il progetto rovinerà il paesaggio e le coste della Calabria". Solo 2 reggini su 10 invece credono che le centrali a carbone non abbianoripercussioni negative su ambiente e salute. Questa è una nuova voce che si va ad aggiungere per la tutela delle coste, nel mese della campagna del WWF Italia "Un mare di oasi per te". "La popolazione calabrese si è dimostrata molto più avanti di chi crede che il carbone abbia ancora un futuro come fonte di energia e ha detto chiaramente di voler tutelare il clima globale, le proprie coste e la salute dell'ambiente e dei cittadini" afferma Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, che continua: "A questo punto chiediamo con forza al responsabile della Repower Kurt Bobst di prendere atto di quello che pensano anche i cittadini calabresi e di mantenere la parola data ritirando in maniera definitiva il progetto Saline Joniche. Il carbone e una nuova centrale, nella realtà energetica italiana, non hanno senso. L'Italia, con una potenza installata che già supera i 106.489 MW, a fronte di una punta massima della domanda di 56.822 MW, ha una capacità sovrabbondante di produzione di energia elettrica, tanto che le centrali esistenti funzionano a scartamento ridotto.

La vera sfida è puntare su modello energetico centrato sul risparmio, l'efficienza e le fonti rinnovabili". Il dirigente di Repower, infatti, ha recentemente rilasciato alcune dichiarazioni alla testata svizzera Südostschweiz in cui affermava che "contro il chiaro volere della popolazione non si possono realizzare progetti infrastrutturali di tali dimensioni". E più chiaro di così il no della popolazione non poteva essere. "Finora la SEI - Repower non ha voluto affrontare la realtà dei fatti" dichiara Beatrice Barillaro, presidente del WWF Calabria. "Ora questi numeri la inchiodano alle proprie responsabilità. Se la Repower non vuole continuare a danneggiare la propria reputazione condannando la Calabria a rimanere ancorata a scelte energetiche del passato, non rimane che il ritiro del progetto. Del resto, ci sarebbe altro da fare: la Calabria ha una forte vocazione per le fonti rinnovabili in particolare solare, eolico e correnti marine."
E' possibile sostenere il WWF su www.wwf.it, con carta di credito al 800.990099 o facendo un versamento sul ccp 323006. Il progetto Saline Joniche ha suscitato anche una forte reazione contraria in Svizzera, dove la Repower ha sede: il WWF del cantone dei Grigioni insieme ad altre associazioni ha lanciato un'iniziativa contro gli investimenti sulle centrali a carbone chiedendo anche al Governo dei Grigioni di prendere una posizione chiara contro il progetto della Repower.

Il sondaggio è scaricabile dal sito: www.wwf.it/fermiamoilcarbone. I risultati del sondaggio su Saline Joniche rappresentano anche una nuova voce per la tutela delle coste italiane, per la quale proprio in questi giorni il WWF Italia ha lanciato la campagna "Un mare di oasi per te" (www.wwf.it) che sta già coinvolgendo migliaia di italiani e che vede nei poli industriali costieri una delle principali minacce. Come si legge nel dossier WWF "Coste: il profilo fragile dell'Italia" diffuso questa settimana, su 57 aree industriali da bonificare considerate con decreto del ministro dell'Ambiente come di "interesse nazionale", ben 28 insistono sulla fascia costiera, per un totale di decine di migliaia di ettari sia a terra che a mare, che non si sa se né quando verranno mai bonificati. A questi si aggiungono molti altri poli industriali, sottoposti anche alla cosiddetta Direttiva Seveso per aree ad alto rischio, e poli energetici come Porto Tolle, Montalto di Castro o la centrale che si vorrebbe costruire a Saline Joniche. Una tara ereditata da sconsiderate politiche degli anni 50-60, che hanno visto molte industrie ad alto impatto ambientale insediarsi lungo coste incontaminate o pressoluoghi storici e naturalistici di immenso valore (come Marghera vicino a Venezia o Priolo presso Siracusa) e che oggi la costruzione della centrale di Saline Joniche rischierebbe anacronisticamente di replicare.

Leggi tutto il post...

5 maggio 2012

Berlino, i cittadini conquistano l'energia

Da IlFattoQuotidiano "Riportare la rete elettrica nelle mani dei cittadini, sottraendola al controllo di un big dell’energia. E’ la visione alla base di “BürgerEnergie Berlin” (BEB), una cooperativa che intende comprare la più grande rete elettrica della Germania, quella di Berlino, 40mila chilometri di cavi gestiti oggi dalla svedese Vattenfall. E vuole farlo con l’aiuto dei cittadini: ognuno può infatti acquistare una quota e sperare così di contribuire a suo modo alla Energiewende, la “svolta energetica” che porterà nel giro dei prossimi dieci anni la Repubblica federale a spegnere tutte le sue centrali nucleari e a sviluppare ancora più massicciamente le rinnovabili. L’idea, insomma, è quello di una Energiewende dal basso. Un’idea tutt’altro che impopolare a Berlino: da alcune settimane un’iniziativa civica chiamata “Berliner Energietisch” sta raccogliendo firme per indire un referendum finalizzato proprio a rimunicipalizzare la rete elettrica della capitale tedesca. L’obiettivo è doppiare il successo del referendum sull’acqua pubblica tenutosi l’anno scorso, che puntava a svelare i contratti di privatizzazione parziale della società dei servizi idrici. “Ora o mai più”, spiegano gli iniziatori di BürgerEnergie Berlin, che si sono assicurati l’appoggio, tra gli altri, dell’organizzazione ambientalista BUND e di Naturstrom e Greenpeace Energy, due operatori alternativi specializzati nella fornitura di energia elettrica da fonti rinnovabili. La concessione comunale per Vattenfall scadrà sì alla fine del 2014, ma il Land deciderà già nei prossimi mesi a chi riassegnarla. BEB ha depositato una manifestazione d’interesse. E intanto ha iniziato a raccogliere fondi. Un milione di euro è già da parte. Quanto dovranno racimolare in tutto, in realtà, non lo sanno di preciso neanche i responsabili della cooperativa: il valore della rete berlinese oscilla infatti tra i 400 milioni (dato contenuto in uno studio commissionato dal governo regionale) e i 3 miliardi (stima di Vattenfall). In ogni caso la cooperativa dovrà investire in proprio il 40 per cento della somma (il resto potrà arrivare da altre fonti). In una settimana dalla diffusione del primo comunicato stampa la società ha raccolto una cinquantina di nuovi soci. L’intera economia energetica, ci spiega Luise Neumann-Cosel, uno dei due membri del consiglio direttivo di BEB, “deve essere organizzata in modo molto più democratico”. Come è presto detto: chiunque – non solo chi risiede a Berlino – può acquistare una quota, depositando almeno 500 euro. Chi preferisce andare sul sicuro può versare su un conto fiduciario una somma che verrà trasformata in una vera e propria partecipazione solo nel caso in cui la società si aggiudicherà la gestione della rete. Ogni socio dispone di un solo voto, indipendentemente da quanto ha investito. Gli utili verranno impiegati in due modi. In parte saranno utilizzati per lo sviluppo di reti intelligenti (smart grid), per facilitare l’integrazione delle rinnovabili nella rete e per sostenere progetti finalizzati alla Energiewende: il gestore della rete, da solo, non basta infatti a realizzare una vera e propria svolta energetica, visto che, ad esempio, trasporta ai clienti finali anche la corrente prodotta dalle centrali nucleari. L’altra parte degli utili verrà redistribuita ai soci. Il guadagno potenziale è tutt’altro che trascurabile: l’Agenzia delle Reti, responsabile in materia, fissa una rendita compresa tra il 6 e il 9 per cento. “Non vogliamo che gli utili finiscano a una grande azienda, bensì che restino qui nella regione”, nota Neumann-Cosel. Gli attuali dipendenti di Vattenfall, inoltre, non verrebbero licenziati, ma resterebbero al loro posto, in modo da trarre profitto dalla loro esperienza. Il fenomeno della “rimunicipalizzazione dal basso” si osserva anche in altri Comuni tedeschi, dove i cittadini si uniscono per acquistare la rete elettrica precedentemente privatizzata. Il caso più noto è quello di Schönau, nella Foresta Nera, dove a metà anni Novanta un’iniziativa civica ha comprato la rete locale e ha creato una società che oggi fornisce corrente ottenuta da fonti rinnovabili a 130mila clienti in tutta la Germania. Il problema: Schönau ha circa 2.400 abitanti, Berlino 3,5 milioni. Neumann-Cosel è consapevole della differenza, ma non si scompone: non siamo da soli, chiarisce, bensì ci avvaliamo delle competenze di molti partner attivi nel settore, a partire proprio da Michael Sladek, il medico “ribelle” che ha lanciato la rivoluzione di Schönau e siede nel consiglio di sorveglianza di BürgerEnergie Berlin. E poi, aggiunge Neumann-Cosel, “se riusciremo nel nostro scopo questo diventerà un progetto esemplare, con un grosso fascino anche per altri”.

Leggi tutto il post...

Artisti fuori dalle centrali! Tiziano Ferro: stop

Sempre dall'iniziativa "Facciamo luce su enel" di Greenpeace, un appello all'artista Tiziano Ferro affinché non si renda complice di una politica insostenibile.


 "La musica di Tiziano Ferro non fa male al clima: il suo nuovo tour è a emissioni zero di anidride carbonica, cioè il consumo di energia dei suoi concerti verrà compensato con progetti di riforestazione. Un gesto concreto in difesa del Pianeta, da parte di un artista sensibile.
 Quando abbiamo letto il nome dell’azienda che sponsorizza il suo impegno ambientale, però, l’entusiasmo è svanito: chi aiuta Tiziano a fare un tour a emissioni zero di CO2 è Enel, l’azienda numero uno per emissioni di anidride carbonica in Italia. Circa 27 milioni di tonnellate l’anno solo dalle sue centrali a carbone e circa 40 milioni dal suo intero parco termoelettrico. 40 milioni di tonnellate di CO2 sono quasi 4 quattro volte le emissioni annuali di Roma, Milano e Torino messe insieme. Quanti alberi dovrebbe piantare Enel per rimediare? Le emissioni di anidride carbonica distruggono il clima. I cambiamenti climatici causano tragedie anche a casa nostra, come le alluvioni che lo scorso autunno hanno colpito Genova, le Cinque Terre, Messina e che hanno causato la perdita di molte vite e la distruzione di luoghi bellissimi. Siamo convinti che i cambiamenti climatici siano una seria preoccupazione anche per Tiziano.

Per questo motivo gli chiediamo di non dare a Enel l’occasione di ripulire la propria immagine sfruttando il suo talento e la sua musica. Per di più con uno sforzo minimo, che non compensa neppure lontanamente tutti i danni che l’azienda “killer del clima n°1” causa.

Chiedi anche tu a Tiziano Ferro di non sporcarsi con Enel. Lasciagli un messaggio su Twitter. @TizianoFerro

 ---
Dalla nostra campagna "Artisti fuori dalle centrali": Non prestare la tua faccia per rifare il trucco agli inquinatori, non aiutarli a coprire i loro abusi. Mettere la tua immagine pubblica al loro servizio ha una valenza politica, non farti usare! Non ti chiediamo di politicizzare la tua arte, ma di non prestare la tua immagine pubblica per scopi distruttivi. La musica non ha confini ma l’artista è un cittadino di questo mondo, ne condivide la sorte e le responsabilità.

Leggi tutto il post...

29 aprile 2012

Quanto pesa sulla nostra società l'inquinamento di Enel

Riportiamo l'articolo “Il carbone dell’Enel fa un morto al giorno e costa due miliardi l’anno” da ilFattoquotidiano
Greenpeace Italia anticipa al Fatto Quotidiano il suo rapporto su Enel, basato sulle ricerche della fondazione olandese SOMO e della European Environmental Agency (EEA). Investimenti minimi nelle nuove rinnovabili, sostegno anacronistico al carbone e nucleare all’estero

Un morto al giorno, 366 l’anno per la precisione. Sono quelli riconducibili all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel secondo la proiezione della Fondazione Somo per Greenpeace Italia. Applicando i parametri dell’Agenzia Europea per l’Ambiente alle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia ex pubblica emerge che “le morti premature associabili alla produzione di energia da fonti fossili di Enel per l’anno 2009 in Italia sono 460. I danni associati a queste stesse emissioni sono stimabili come prossimi ai 2,4 miliardi di euro. La produzione termoelettrica da carbone costituisce una percentuale preponderante di questi totali: a essa sono ascrivibili 366 morti premature (75%), per quell’anno, e danni per oltre 1,7 miliardi di euro (80%)”. Un responso implacabile che la Fondazione ha trasmesso all’Enel ricevendo, purtroppo, risposte molto elusive.

“Lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili unito alla perdurante stagnazione della domanda di energia elettrica sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendo a rischio la possibilità di tali impianti di rimanere in esercizio”. L’ha dichiarato un mese fa Paolo Colombo, presidente dell’Enel, seguito a ruota dall’amministratore delegato Fulvio Conti, che ha chiesto di “correggere le forme di incentivi per le fonti rinnovabili” calibrando meglio i sussidi nel prossimo decreto allo studio del governo nazionale, per “dare impulso ad altre filiere”.


Il mondo sta cambiando, la produzione di energia è sempre più diffusa e decentrata, ma l’Enel non vuole mollare: il suo vecchio mondo, quello delle grandi centrali a gas, carbone, uranio, olio combustibile deve essere preservato. “Enel è entrata a gamba tesa sul tema dell’incentivazione alle rinnovabili – ha dichiarato a Repubblica.it il senatore del PD Francesco Ferrante – . Le cose sono due: o si tratta di disinformazione o di una sorta di confessione di chi guarda al passato e ha paura del futuro”.
Per Greenpeace Italia non ci sono dubbi: Enel ha paura delle rinnovabili perché è ancorata al passato o si affida a tecnologie di dubbia efficacia. “Se si eccettua l’idroelettrico, che in Italia è semplicemente un’eredità di investimenti passati e in altre regioni, come in America Latina, è collegato a progetti potenzialmente ad alto impatto ambientale, gli investimenti di Enel nelle rinnovabili sono minimi, specialmente in Italia ed Europa, dove la riduzione delle emissioni di Co2 è affidata al nucleare o a improbabili tecnologie come la cattura e sequestro del carbonio (Carbon Capture Storage o CCS)”, ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.
Nel suo rapporto, che ilfattoquotidiano.it ha ottenuto in anteprima, Greenpeace non si limita a puntare il dito, come ha già fatto più volte in passato, sul mix energetico “anacronistico” di Enel, ma analizza per la prima volta i costi esterni delle centrali Enel a carbone e petrolio. “Si tratta dei costi per l’ambiente, l’agricoltura e la salute dei cittadini. Sono voci di costo che non compaiono nei bilanci, perché la società non li paga. A pagare è però l’ecosistema nel suo complesso”.
Greenpeace fa riferimento a un rapporto della fondazione olandese SOMO, che uscirà nei prossimi mesi, e allo studio della EEA (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea, uscito nel novembre del 2011. Lo studio dell’EEA individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. In Italia il primato spetta alla centrale a carbone Federico II di Brindisi, gestita dall’Enel, i cui costi esterni (calcolati dall’EEA) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009: una cifra che supera i profitti che Enel ottiene dalla centrale. “E’ un gioco pericoloso, che non vale la candela”, continua Onufrio. “I profitti sono ottenuti con un prezzo altissimo per l’ambiente e la salute”. Greenpeace Italia ha esteso la metodologia utilizzata dallo studio dell’EEA a tutte le centrali a carbone gestite da Enel in Italia ed è arrivata a conclusioni preoccupanti: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro – oltre il 40% dell’utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011”, si legge nel rapporto. “Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro – che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone – i costi esterni potrebbero toccare la quota di 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, costi da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”.
Al termine del rapporto, Greenpeace chiede ad Enel di effettuare al più presto una valutazione dei costi esterni delle centrali a combustibili fossili, riportando i risultati all’interno del bilancio di sostenibilità. Tra i quesiti rivolti ad Enel non mancano i riferimenti al progetto per la centrale a carbone di Galati, in Romania, “in un’area già colpita da decenni di inquinamento dell’industria pesante rumena” e alla centrale Reftinskaya GRES, nella regione di Ekaterinburg, in Russia, che sarebbe stata accusata di “violazioni di norme ambientali” da parte delle autorità locali. Altre domande riguardano i reattori nucleari Cernavoda 3 e 4, che Enel gestisce in Slovacchia e il progetto Baltic NPP a Kaliningrad, in Russia, per la costruzione di un nuovo reattore nucleare.
Alcune delle domande di Greenpeace sono state inoltrate alla società dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) azionista “critico” di Enel dal 2007. Enel sarà tenuta a rispondere entro il giorno dell’assemblea, prevista per lunedì 30 aprile. Tra gli azionisti saranno presenti, oltre alla Fondazione di Banca Etica, anche il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – delegato dai Missionari Oblati – e l’attivista colombiano Miller Armin Dussan Calderon, professore dell’Università Surcolombiana e presidente di Assoquimbo, associazione dei comitati locali colombiani che presidiano il territorio contro la costruzione della diga Enel di Quimbo in Colombia. Ramazzini e Calderon porteranno in assemblea la voce delle popolazioni del sud del mondo impattate dai progetti idroelettrici della compagnia italiana. L’assemblea potrà essere seguita online sul sito del Fatto Quotidiano e su Twitter (#nonconimieisoldi e #azionisticritici). 
 di Marco Atella e Andrea Di Stefano

----------------------
NdR: ci scusiamo ancora coi nostri amici e lettori, ma perduranti problemi tecnici ci hanno impedito di curare adeguatamente il sito in questo periodo. Torneremo a pubblicare con la stessa costanza che in passato, promesso.


Leggi tutto il post...

15 aprile 2012

Ministro Clini: coi veleni costruiremo scuole

Inaccettabile, se ci si rende conto delle conseguenze implicate.

"Il ministro Corrado Clini presenta una legge che consente di usare rifiuti nei cementifici, anche se poco tempo fa una casa a Treviso, costruita con cemento misto a rifiuti è stata abbattuta.

 Questo l'intervento del ministro al convegno Aitec Nomisma "Vareremo entro fine mese un decreto che prevede l’impiego di combustibili solidi secondari nei processi industriali, in particolare nel settore del cemento, che aiuterà anche molte regioni ad uscire dallo stato di emergenza".
 La strada da seguire, secondo Clini, è l'uso come come combustibile, dei rifiuti, e non specifica quali, in centrali, cementifici e anche termovalorizzatori. Obiettivo? Risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti, e contrastare un settore nelle mani del crimine organizzato.

Grande pensata, combattere le mafia facendole concorrenza. Si legalizza una pratica monopolizzata dalle varie, Cosa Nostra, Camorra e 'Ndrangheta, usando la monnezza e bruciandola nei cemetifici, rifiuti speciali stipati nelle ecoballe accatastate ovunque in Campania. In pratica via libera al riciclaggio di Stato." Fonte

Leggi tutto il post...

8 aprile 2012

Lettera aperta: adesione a "Roma verso rifiuti zero"

Da www.diamocidafare.com, con piacere diffondiamo:

"Lo scorso 6 marzo abbiamo depositato in Campidoglio il testo della delibera di iniziativa popolare “Roma verso rifiuti zero”. Ci sono ancora poco più di due mesi per centrare l’obiettivo delle 5.000 firme al giorno per Roma.
 Noi però vorremmo dare alla città un segnale più forte del “minimo legale”, un segnale che serva soprattutto a scuotere i romani dal pernicioso torpore nel quale sono sprofondati in relazione al problema dei rifiuti, nella consapevolezza che solo una mobilitazione del civismo cittadino possa imprimere al dibattito pubblico quella svolta senza la quale le cose sono destinate a peggiorare drammaticamente.

La delibera nasce da una proposta della rete Zero Waste Lazio e si inserisce nell’ambito del movimento internazionale che trae la sua origine dalle teorie di studiosi come il prof. Paul Connett, teorie che sono state applicate con successo in grandi città come San Francisco. In Italia già molti comuni hanno ufficialmente adottato la strategia di Rifiuti Zero, primo tra tutti il comune di Capannori (http://www.rifiutizerocapannori.it/comuni-rifiuti-zero.html).
Tanti cittadini romani, riuniti in comitati, associazioni, coordinamenti di zona o a titolo individuale, hanno aderito a questa iniziativa e hanno dato il loro contributo alla stesura della delibera popolare, con i necessari adattamenti imposti dalla complessità della situazione romana, che condiziona pesantemente le sorti di altri territori nella regione.


La delibera, quindi, non è un esercizio di utopia, ma contiene proposte concrete e argomentate per cercare, anzitutto, di riportare al centro del dibattito pubblico il problema – troppo a lungo rimosso – di una corretta gestione dei rifiuti nella nostra città e chiedere che si cominci da cose semplici: rispettare la legge, fare la raccolta differenziata, salvare l’ambiente in cui viviamo.


Il percorso della delibera è appena cominciato e vi chiediamo di unirvi a noi: nella raccolta delle firme, ma soprattutto nella discussione critica dei suoi contenuti e poi nell’impegno che dovrà seguire a partire dal 6 giugno per chiedere che venga discussa e approvata dall’Assemblea capitolina. Riteniamo che la politica abbia responsabilità immense, storiche e contingenti, per non aver saputo risolvere il problema dei rifiuti e averci portato sull’orlo del baratro.
Dal dibattito politico, purtroppo, non emergono segnali di novità. Si ripropongono invece le stesse soluzioni che ci hanno portato nell’emergenza: discariche e inceneritori.


Bisogna cambiare strada: se la politica non sa darsi un’agenda ambientale, dobbiamo imporla noi cittadini! La delibera, quindi, è innanzitutto una proposta rivolta ai romani, che pure hanno grandi responsabilità per essersi disinteressati troppo a lungo dei rifiuti che producono ogni giorno, che ammontano a ben 5.000 tonnellate. Vi chiamiamo a impegnarvi con noi in questo esercizio di democrazia che consiste nel raccogliere le firme, ma soprattutto nel discutere la delibera in ogni occasione possibile, nel criticarla, nel sollevare dubbi, perplessità e proposte moltiplicando le occasioni di dibattito e confronto.


PER IL COMITATO PROMOTORE
Marcello Paolozza


Informazioni su iniziativa e delibera : www.diamocidafare.com.
Per contatti e per sapere dove firmare e come collaborare : diamocidafareroma@gmail.com

Leggi tutto il post...

Coal Rush

Da Repubblica l'intervista ai registi Lorena Luciano e Filippo Piscopo, autori del lungometraggio "Coal Rush", di cui segue il trailer
"Un film sull'America remota e poco setacciata dai media, una storia di monopolio dell'industria carbonifera nel cuore degli Appalachi, dove gli uomini e i luoghi diventano immensi come le montagne che li circondano". Per raccontare il loro documentario, Coal Rush, i registi Lorena Luciano e Filippo Piscopo partono dalla Green America, la terra del "progresso verde" contaminata dalla speculazione e dal malaffare delle grandi corporation, come la compagnia Massey Energy, accusata di aver inquinato le acque della Virginia Occidentale.

Tutto è cominciato da una notizia al telegiornale: tredici minatori rimasti intrappolati in una miniera della West Virginia, a Sago. E' il primo gennaio 2006. Lorena si trova in Italia a trascorrere le feste natalizie; suo padre è all'ultimo stadio di una malattia che non lascia scampo (la SLA, sclerosi laterale amiotrofica). "In un momento di stasi, mi sono collegata ad Internet per approfondire la notizia dei minatori e ho recuperato una serie di articoli pubblicati dalla stampa americana", spiega Lorena, affascinata dai rituali e dalla fede delle famiglie: in quelle occasioni, c'è chi si raccoglie in superficie, fuori dalla miniera, chi prepara dei tavoli, i compagni di lavoro e le mogli portano dei viveri e delle candele. Si prega, aspettando di conoscere la sorte dei minatori sottoterra. "Inevitabilmente, il parallelo con la malattia di mio padre è molto forte, anche lui intrappolato nel suo corpo, aspettando che finisca l'ossigeno". 
Appena tornati a New York, i due filmmaker cominciano a fare ricerca sulle miniere negli Stati Uniti. Prendono atto che gli USA dispongono dei più grossi giacimenti di carbone al mondo (secondo posto Russia, terzo Cina) e che quasi il 50% dell'energia americana dipende dal carbone. Adesso la percentuale si è abbassata al 42%, grazie anche alla nuova amministrazione Obama che incentiva le energie rinnovabili. "Una volta arrivati in West Virginia, abbiamo capito subito che il film che avremmo girato doveva raccontare lo stridere di questi luoghi incantati, in contrasto con la barbarie perpetrata dall'industria carbonifera". Il viaggio nei meandri del capitalismo sfocia nel crudo, e poco garantito, diritto alla salute.

Ma "Coal Rush", che il 29 marzo sarà proiettato in anteprima al Landmark Midtown Art Cinema di Atlanta, è anche un ritratto dei vizi di certe corazzate Lorena Luciano: "La realizzazione di questo film ci ha permesso di avvicinarci ad una realtà sociale di cui spesso nemmeno il cittadino medio americano è a conoscenza. Più che di diritto alla salute qui si tratta di un diritto umano fondamentale, quello all'acqua potabile, negato a un'intera comunità per decenni. Questa tragedia ambientale e umana poteva essere evitata con l'assunzione delle debite misure di smaltimento dei rifiuti tossici da parte di una compagnia che invece ha messo i profitti davanti a tutto. In America, come in Italia, le grandi compagnie rappresentano un grosso introito per le casse dello stato, che spesso chiude un occhio sui costi ambientali della grande industria. Inutile citare la diossina a Marghera o l'amianto di Casale Monferrato".


Il cinema si trasforma per raccontare la realtà: la vostra esperienza con il cine-documentario indipendente da dove ha origine e cosa vi ha portato ad attraversare? Filippo Piscopo: "All'origine della nostra carriera c'è un documentario su Dario Fo (Venezia, 1998) su cui avevamo cominciato a lavorare prima del Nobel, e poi l'avventura americana con "Urbanscapes", che racconta la trasformazione feroce delle citta americane. Il cinema indipendente è una grande opportunità per scoprire e approfondire delle storie spesso solo sfiorate dai grandi media. Il documentarista diventa un esploratore, un antropologo, una lente di ingrandimento su territori geografici e umani".

Perché, tra le tante storie a sfondo ambientalista, avete scelto questa? Qual è la sua particolarità?
Lorena Luciano: "Abbiamo impiegato circa due anni per trovare la storia giusta. Siamo andati in West Virginia a più riprese, ammaliati sia dalla bellezza dei luoghi che dalla cattività rurale. Cercavamo una storia fatta di tanti piccoli eroi che potessero raccontare la complessità dell'America in modo corale. Tutti i personaggi di "Coal Rush" sono piccoli eroi del quotidiano: il pastore Larry Brown che manda avanti la sua chiesa da solo, Donetta che è sopravvissuta a mille malattie causate dall'acqua contaminata e non si stanca di dare sostegno ad altre persone, l'avvocato Kevin Thompson e tutta la sua squadra che si è battuta contro la compagnia carbonifera, ma anche i minatori che vanno in miniera tutti i giorni e sono fieri di avere un lavoro e mantenere le loro famiglie in modo dignitoso. Seppur "Coal Rush" è a suo modo una storia estrema, la sento molto più vicina alla vita reale di un generico reality show".

Quanto è costato il progetto e chi lo ha sostenuto? Filippo: "Il budget complessivo del film è di 200.000 dollari. Non è stato facile raccogliere i fondi perché i cosiddetti documentari di denuncia non fanno grande mercato e quindi non sono facili da sovvenzionare. Co-finanziatori del progetto sono stati, tra gli altri, il New York State Council for the Arts, l'ente pubblico newyorchese che per eccellenza si occupa di finanziare le arti, e la Ben Jerry Foundation, esempio di società illuminata che reinveste parte dei suoi profitti a sfondo filantropico e in particolare su progetti a salvaguardia delle risorse idriche nazionali".

Che cosa vorreste lasciare, con 'Coal Rush', agli europei, e in particolare agli italiani?
Lorena: "L'immagine di un'America più fragile e umana di quello che si pensi".

Lo stile di "Coal Rush" ha modelli ispiratori? Filippo: "Vittorio De Seta è stato senz'altro un maestro, oltre che un caro amico a cui eravamo molto affezionati. Quando gli abbiamo parlato di "Coal Rush", ne era molto entusiasta, ci ha incoraggiato a perseverare nonostante le difficoltà a trovare i finanziamenti. Ci aveva addirittura suggerito di contattare Brad Pitt per coinvolgerlo nella promozione. I suoi film, da "Banditi a Orgosolo" a "Diario di un Maestro", sino ai cortometraggi sui minatori e pescatori, sono dei modelli ineguagliabili di cinéma vérité. Sul fronte americano, Barbara Kopple è un riferimento importante per la sua capacità di penetrare in modo intimo la realtà dei suoi personaggi: "Harlan County USA" rimane uno dei suoi film più belli. Per non parlare di Werner Herzog e della sua affascinante commistione tra documentario e fiction".

La vicenda avrà un nuovo inizio con "Coal Rush"? Filippo: "Dal punto di vista legale, no, perché le parti hanno raggiunto un accordo extra-giudiziale, quindi il caso é chiuso. Dal punto di vista umano, questo film ha un grande significato emotivo per i nostri personaggi che hanno lottato sette anni contro un gigante dell’energia. Ci vuole forza, audacia e una grande perseveranza per non farsi intimorire, e questo film è la testimonianza del loro coraggio".

Leggi tutto il post...

4 aprile 2012

Carbone business macabro a norma di legge

L'articolo originale è della CNN, "A power plant, cancer and a small town's fears", qui raccontato da petrolio.blogosfere.it:
"L'impianto a carbone di Juliette, in Georgia (USA) è il più grande impianto degli States, con due ciminiere da 300 metri ciascuna. Secondo l'Environmental Protection Agency è il più grande produttore di gas serra del Paese.
I cittadini di Juliette, che vivono attorno alla centrale, si ammalano e muoiono. Il sintomo più diffuso è svegliarsi nel cuore della notte sputando sangue. I medici interpellati, regolarmente, chedono:"Lei è un alcolista?" A madri di famiglia, vecchietti, "Lei è un alcolista?". Ovviamente non lo sono mai, e altrettanto ovviamente in seguito ad analisi ed esami l'origine del male rimane misteriosa. Come "misteriosa" rimane l'origine di tutti i casi di cancro che colpiscono ogni famiglia. La Georgia Power, compagnia elettrica, nega ogni responsabilità. Anche quando nelle analisi dei capelli svolte di propria iniziativa dai cittadini si trovano 68 parti per milione di uranio, sottoprodotto delle ceneri del carbone, la compagnia nega. "E' tutto sotto controllo, è tutto a norma di legge". E' a norma di legge anche comprare case e proprietà. E infatti la Georgia Power lo sta facendo: quando una casa resta vuota perché gli abitanti sono alfine morti, la compagnia compra. Compra, rade al suolo nottetempo, pianta un boschetto di pini e sigilla il pozzo. Ultimamente vengono fatte offerte di acquisto per case ancora abitate, quelle abitate da gente malata. Anche lì poi, case rase al suolo e pozzi sigillati. Gli attivisti locali sostengono che questo silenzioso chiudere i pozzi rappresenta un allarme rosso. L'acqua è inquinata, ed è l'acqua che i cittadini bevono. Ma è tutto sotto controllo e a norma di legge. Le compagnie mentono spudoratamente, ma i cittadini sono obbligati a crederci e la stampa a far finta di crederci. Funziona così ovunque, anche qui, chiedetelo ai tarantini."

Leggi tutto il post...