Da centumcellae.it la testimonianza di un libero cittadino
"Osservare con costanza la vita dei pendolari che ogni mattina partono da Civitavecchia alla volta di Roma è assai interessante perché, per quanto microscopica e temporanea, questa condizione è rivelatrice di una realtà sociale più vasta.
Innanzitutto è necessario chiarire chi sono i pendolari da un punto di vista economico. E’ presto detto. In genere appartengono a categorie di lavoratori dipendenti a reddito medio-basso, siano essi operai salariati, piccola borghesia impiegatizia, addetti ai servizi con scarsa qualifica. C’è poi chi il reddito deve ancora procacciarselo come nel caso degli studenti.
Stabilito che noi pendolari apparteniamo principalmente a fasce sociali che vivono di salari e stipendi modesti, o poco più, notiamo che proprio per questo motivo ci troviamo per tutta la durata del viaggio immersi in un universo saturo di costrizioni. Vediamole.
1) Si viaggia con persone che non si scelgono. In altre parole, per quanto provvisoria, la compagnia è obbligata. Da qui l’affannosa preoccupazione di reperire posti per amici e colleghi di lavoro (simpatici).
2) L’ora e un quarto (salvo ritardi) di viaggio da Civitavecchia a Termini è trascorsa in spazi ristretti, promiscui, dove la pulizia lascia molto, molto a desiderare e il contatto fisico diventa spesso inevitabile favorito per di più dall’effetto sardina provocato dal sovraffollamento.
3) Non è possibile alcuna intimità. E se questa viene comunque manifestata (ad esempio, dormire) si è sottoposti all’attenzione esterna. Consapevolezza che, per restare al precedente esempio, ti fa dormire con un occhio solo per paura di furti, molestie ecc. In breve: il pendolare è sempre in allarme.
4) In piedi o seduti si è costretti in posizioni del corpo e posture obbligate. Dato il sovraffollamento e gli spazi angusti non è possibile muoversi a piacimento. E se si osa farlo si è sottoposti alla censura dei colleghi pendolari.
5) Qualsiasi conversazione faccia a faccia o telefonica è ascoltata da estranei (per la gioia del sociologo che così raccoglie abbondanti informazioni senza l’onere di intervistare qualcuno). Alla stessa visibilità pubblica sono sottoposti comportamenti espressivi quali ridere, scherzare, scambiare tenerezze con il proprio partner ecc.
6) Anonime voci emesse da altoparlanti lanciano periodicamente avvisi (essere in possesso del biglietto ecc.), ricordano i divieti e intimano punizioni (la multa, per esempio).
7) Infine, il pendolare è sottoposto a un regime di sorveglianza costante e ad eventuali sanzioni pubbliche da parte di personale in divisa.
L’insieme di questi fattori ci offre una realtà sociale assai ben definita. A cosa somiglia? A un carcere. Ancora più precisamente somiglia alla vita in cella. Sembra proprio che la prigione costituisca il modello a cui si sono ispirati coloro che hanno pensato e realizzato gli interni dei vagoni per pendolari. Ma si potrebbe obiettare che in fondo anche prendere il treno una volta l’anno per andare in vacanza significa trovarsi in compagnia di sconosciuti, all’interno di spazi ristretti, sovraffollati ecc. Vero. Però il turista baratta la rinuncia al proprio privato in cambio di un’aspettativa piacevole e per poche volte all’anno.
Il pendolare invece risponde a un obbligo tutti i giorni, spesso per decenni o per tutta la vita. Ne consegue che il significato della sua condizione e il senso del suo vissuto sono imparagonabili rispetto a quelli di altri viaggiatori che sono tali per scelta. Ed sono imparagonabili anche con viaggiatori che, saltuariamente, si trovano in situazioni simili.
Al di là di questa disputa ciò che unifica forse ogni viaggiatore che utilizza il treno è che si potrebbero realizzare vagoni molto più comodi e inventare soluzioni per rendere gli interni a misura d’uomo. Manca la tecnologia?
Nient’affatto. Siamo asfissiati dalla tecnologia. Manca la volontà politica. In breve: si potrebbe tranquillamente realizzare una modalità di viaggio di gran lunga qualitativamente migliore dell’attuale.
Perché il pendolare si trova invece a vivere quotidianamente un’odissea fatta di
bagni inagibili, sedili sporchi, sovraffollamento, climatizzatori che non funzionano, vagoni maleodoranti, ritardi e lunghi tempi di percorrenza?
Semplice: non appartiene a fasce sociali vincenti. Quelle che in Italia non pagano le tasse e non vanno in prigione e che comunque quando viaggiano in treno si trovano in situazioni molto più confortevoli e non in carri bestiame.
Eppoi raramente, se non mai, la media e alta borghesia utilizzano il mezzo pubblico per spostarsi. Questo è destinato al popolo. E farlo viaggiare in condizioni punitive è una tecnica di controllo sociale. Ci si stanca di più, si diventa maggiormente egoisti, non si ha tempo da dedicare al prossimo e non ci si vede inseriti in una collettività.
Infatti, nonostante da decenni la tratta Civitavecchia-Roma sia indegna di un paese civile, i pendolari non riescono a migliorare la propria condizione. Non si tratta di un problema locale, ma nazionale. I due milioni e mezzo di pendolari italiani vivono più o meno gli stessi disagi ormai da generazioni. Occorrerebbe un’altra politica per non trovarci ogni giorno a passare delle ore dentro un carcere con le ruote. Una politica che metta al primo posto l’essere umano. Una politica che non c’è. E la favoletta delle risorse scarse la vadano a raccontare a qualcun altro.
Patrizio Paolinelli"
13 dicembre 2010
Pendolarismo da Terzo Mondo
enel ci augura una buona serata
I sonetti di Giancarlo Peris: "La foresta"
A tre mesi dall'avvìo della rubrica pubblichiamo l'undicesimo sonetto del prof. G. Peris. Questo "La foresta" ci ricorda come la diatriba sugli alberi da piantare a ridosso di TVN (a parzialissima compensazione per il danno ambientale, oggi previsto da prescrizioni VIA) abbia ormai 10 anni d'età, eppure nel sito dove dovrebbe sorgere il piccolo boschetto ad oggi si trovano solo serbatoi e una discarica abusiva enel.
La foresta 19 ottobre 2001
Lavoro e Ambiente dice che er carbone
Da mette a Torre Nord, a la centrale,
E’ forse er marchingegno più geniale
Pe’ fa’ cresce salute e occupazione.
Però, p’esse sicuri de ‘st’opzione,
E fa’ contento tutto er litorale,
Dovrebbe l’Enele imbocca’ er canale
De ribassa’ più ancora l’emissione.
Poi dice che pe’ contrasta’ cor fatto
Che spandono ne l’aria l’anidride,
Bisogna mette l’arberi a filagna;
E quindi ‘na foresta c’è ner patto
Che annrà, p’esse quarcosa che un po’ incide,
Da la Calabria infino a la Romagna.
Carbone a TorreValdaliga Nord, 2010
Dal dossier 2010 "Carbone: un ritorno al passato" di Legambiente (pp. 17-18), riportiamo il paragrafo dedicato alla centrale a carbone enel Torrevaldaliga Nord:
"Nonostante referendum, manifestazioni e iniziative di cittadini e di molte istituzioni, si è conclusa nel 2009 la trasformazione a carbone della centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia. L’impianto, una volta entrato completamente in azione con 6.500 ore all’anno di lavoro con i suoi 1.980 MW di potenza, sarà il secondo, dopo la centrale Enel di Brindisi Sud, in Italia per emissioni di gas serra, aggravando ulteriormente la situazione già critica di uno dei più grandi poli di produzione termoelettrica d’Europa. A farne parte sono anche le due centrali di Torrevaldaliga Sud e Montalto di Castro, impianti che hanno superato nelle ultime analisi le soglie Ines (Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti) per diversi inquinanti, come ossidi di zolfo, ossidi di azoto, cadmio, cromo e nichel, per 6.700 MW di potenza installata.
Tornando alla centrale a carbone, è evidente il notevole ritardo nella realizzazione delle prescrizioni individuate nel Decreto Via n. 680/2003 a tutela dei cittadini e dell’ambiente. La rete dell’Osservatorio Ambientale ha ricominciato, dopo 5 anni di silenzio, a comunicare i dati, ma rimangono sconosciuti i valori rilevati dallo Sme (il sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni). È ferma la realizzazione dell’area boscata di circa 40 ettari, denominata “Parco dei Serbatoi” (anzi nell’area individuata la Procura della Repubblica ha avviato un inchiesta visto l’accumulo di rifiuti di cantiere);
addirittura il Comune di Civitavecchia ha chiesto di soprassedere dalla realizzazione dell’opera di mitigazione ambientale, in cambio di altri interventi. Il biomonitoraggio ambientale è datato e condotto con metodologie ormai superate. Il discutibile trapianto di posidonia oceanica, inserito tra le prescrizioni per mitigare l’impatto della “Darsena energetica grandi masse”, presenta diverse aree distrutte e la prateria in pessimo stato.
È stata appena avviata, e già si parla di modifiche alle autorizzazioni per bruciare anche Cdr, ma la centrale ha già diversi problemi con il rumore: accade che di notte rombi e sibili sveglino i cittadini, tanto che anche in questo caso la Procura ha aperto un’inchiesta dalla quale si arriva a capire che il problema sarebbe nel desolforatore.
Nel frattempo dalla relazione semestrale sulle attività della Direzione Investigativa Antimafia circa le infiltrazioni mafiose a Roma e nel Lazio, come risulta dalle anticipazioni sulla stampa romana dei giorni scorsi, emerge un quadro estremamente allarmante, anche per gli interessi «criminali per le imprese attive nei lavori della centrale di Torrevaldaliga Nord».
Intanto nell’adiacente centrale termoelettrica di Torrevaldaliga Sud sembra invece
sventata la riattivazione e conversione a carbone del quarto gruppo ora inattivo."
12 dicembre 2010
Dossier "Carbone: ritorno al passato"
Riportiamo da DazebaoNews:
"Legambiente presenta i numeri e i motivi del ‘NO’ nel dossier ‘Carbone: ritorno al passato." (Clicca qui per scaricare il dossier)
Una centrale tutta nuova a Saline Joniche in provincia di Reggio Calabria e la riconversione della centrale di Rossano Calabro per i gruppi alimentati a olio combustibile. Sono le ultime due proposte di ‘ritorno al passato’ fondate sul carbone che l’Italia potrebbe vedere realizzate dopo la riconversione, già attuata, della centrale di Civitavecchia (Rm), il nuovo gruppo autorizzato di Fiume Santo in Sardegna e i progetti di Porto Tolle (Ro) sul delta del Po e Vado Ligure (Sv), sui quali manca solo la firma del decreto autorizzativo da parte del Ministro dello Sviluppo economico.
Ora c’è la Calabria nel mirino di chi ha scelto di puntare sulla fonte fossile più
climalterante e maggiormente in contrasto con la lotta ai cambiamenti climatici, e proprio in questa regione continua l’opposizione di Legambiente ad una scelta energetica totalmente in contrasto con gli impegni che il Paese ha preso firmando il protocollo di Kyoto e il Pacchetto energia e clima (il cosiddetto 20-20-20). Accordi vincolanti di riduzione dei consumi energetici e delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, che in caso di mancato rispetto, obbligheranno l’Italia al pagamento di pesanti sanzioni.
Oggi a Reggio Calabria, in una conferenza stampa che ha visto la partecipazione, tra gli altri di Massimo Scalia, docente dell’Università la Sapienza di Roma, Giuseppe Neri Assessore Ambiente Provincia Reggio Calabria, Antonio Guarna, Sindaco di Montebello Ionico- Saline, Franco Filareto, Sindaco di Rossano e i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL e dei Comitati, Legambiente ha presentato il nuovo dossier ‘Carbone: ritorno al passato’ illustrando, dati alla mano, i motivi per cui la scelta del carbone è sbagliata.
“Le aziende energetiche – spiega il responsabile scientifico di Legambiente, Stefano Ciafani - continuano a puntare sul carbone come fonte per la produzione elettrica, grazie alla politica di sostegno da parte del Governo, incurante dei problemi legati all’uso di questo combustibile, a partire dalle rilevantissime emissioni di gas serra, tangibili negli impianti che già oggi lo usano sul territorio italiano. L’utilità del carbone – ha aggiunto Ciafani - è una pura propaganda da ‘Paese delle meraviglie’ che nulla a che fare con la realtà e con l’Italia, alle prese con i suoi problemi energetici e con i ritardi rispetto agli obblighi internazionali per combattere l’aumento dell’effetto serra”.
Come tutte le proposte fatte finora nel resto d’Italia, secondo Legambiente, anche i progetti che si vogliono attuare in Calabria, sono assolutamente dannosi visto che aumenteranno la produzione di elettricità dalla fonte fossile più dannosa per il clima, allontanandoci ulteriormente dagli obiettivi di riduzione delle nostre emissioni, senza portare rilevanti vantaggi al fabbisogno di energia. L’associazione ricorda, infatti, che nel 2009 le 12 centrali a carbone attive in Italia, a fronte di una produzione di solo il 13% di elettricità, hanno emesso il 30% dell’anidride carbonica prodotta complessivamente dal settore termoelettrico, circa 36 milioni di tonnellate (Mt) di CO2 sul totale di circa 122, risultando il settore industriale peggiore rispetto agli obblighi di riduzione previsti da Kyoto.
Anche nel 2009 il peggior impianto termoelettrico per emissioni di CO2 si conferma la centrale Enel di Brindisi Sud (13 Mt), a seguire l’impianto di Fusina (Ve) (4,3 Mt) e quello di Fiume Santo (Ss) di proprietà di E.On (4,1 Mt).
Secondo i calcoli di Legambiente se alla centrale riconvertita di Civitavecchia ormai in attività si affiancassero i nuovi gruppi o centrali proposti dalle aziende energetiche, le emissioni di CO2 degli impianti a carbone raddoppierebbero in pochi anni, passando dagli attuali 35,9 milioni di tonnellate a 74,8.
“La Calabria oggi – ha proseguito Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente -diventa l’avamposto di una battaglia che vede contrapposte due visioni molto diverse delle politiche energetiche e dello sviluppo per il Sud del Paese. Da un lato la valorizzazione delle risorse del territorio, l’innovazione e l’efficienza, come investimento di futuro, dall’altro un’idea sorpassata di sistema energetico che inquina, degrada ulteriormente i territori e non offre risposte efficaci alle attese delle popolazioni, neanche sotto l’aspetto occupazionale. Non si capisce infatti quali sarebbero le ricadute positive di un progetto, come quello della SEI a Saline, mentre sono evidenti e, allo stato, inevitabili le conseguenze negative delle emissioni della centrale che inquinerà l’aria e riverserà in atmosfera ben 7,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno”.
“E poi c’è il progetto di riconversione a carbone della centrale Enel di Rossano Calabro – ha aggiunto Franco Falcone, direttore di Legambiente Calabria - che oltre ad aver trovato, come a Saline, l’opposizione di tutti gli enti locali, ha avuto per adesso anche lo stop della Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente. Sui progetti di Rossano e Saline grava poi, fortunatamente, la netta opposizione della Regione, che ha rinnovato il suo no alle centrali a carbone scritto nel 2005 nel Piano energetico attraverso una recentissima mozione approvata all’unanimità in Consiglio regionale”.
“Sul carbone in Italia – ha concluso Ciafani - si continua a millantare e a omettere tutti i problemi connessi al suo uso. Il Governo dica chiaramente se vuole condannare gli italiani al pagamento di pesanti sanzioni che nessuno ci condonerà. Altrimenti, replichi il modello britannico vincolando da subito l’autorizzazione di nuovi progetti a carbone all’effettiva operatività della cattura e del confinamento geologico dell’anidride carbonica”.
Per modernizzare realmente il sistema energetico del Paese, secondo Legambiente è necessario coinvolgere il settore industriale, dei trasporti e dell’edilizia, riducendo i consumi e praticando la via più sostenibile per produrre l’energia elettrica e termica: le fonti rinnovabili. La fonte fossile di transizione verso le sole rinnovabili resta il gas naturale, anche alla luce dei costi più contenuti di oggi, inaspettati fino a qualche anno fa.
I motivi di Legambiente per dire NO al carbone:
- peggiorerà la dipendenza energetica del nostro Paese dall’estero, visto che già oggi importiamo più del 99% del carbone utilizzato nelle centrali elettriche italiane;
- non abbasserà la bolletta energetica del Paese. I potenziali risparmi nell’acquisto del combustibile andranno a beneficio dei bilanci delle aziende energetiche e non arriveranno nelle bollette degli italiani;
- il suo impiego peserà sulle casse dello Stato, visto che ci farà condannare al pagamento delle multe di Kyoto e del 20-20-20.
I falsi miti sul carbone:
- a causa dei consumi sempre più importanti da parte dei paesi con economie emergenti, a partire da Cina e India, le riserve di carbone stanno diminuendo con tassi davvero inaspettati. Secondo le stime di BP se 10 anni fa la disponibilità residua di carbone rapportata ai tassi di utilizzo era valutata in 240 anni, le ultime cifre aggiornate al 2010 sono scese addirittura a 119 anni. Continuando di questo passo tra 10 anni le riserve residue di carbone diventerebbero equivalenti a quelle di petrolio e gas, esauribili in 50-60 anni;
- il basso prezzo del carbone è drogato dai sussidi statali: la Commissione europea ha stimato in circa 3 miliardi di euro all’anno, 2 dei quali solo in Germania, i sussidi pubblici che hanno sostenuto la filiera del carbone tra il 2007 e il 2009 nel vecchio continente, destinati comunque all’esaurimento prima o poi;
- anche la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS - Carbon capture and storage), è ancora una tecnologia tutta da sperimentare su grande scala e anche nella migliore delle ipotesi abbasserà pesantemente il rendimento delle centrali. La tecnologia avrebbe poi una scala industriale solo dopo il 2020.
Professor Balle Nucleari
Dal blog di Greenpeace.it, a firma di G. Onufrio
Umberto Veronesi continua a deliziarci con le sue sparate a favore del nucleare. Dice per esempio che potrebbe dormire avendo in camera da letto scorie nucleari: “non esce neanche la minima quantità di radiazioni” (AGI, La Repubblica, 30 novembre). Se un’affermazione di questo tipo la facesse come Presidente dell’Agenzia di sicurezza nucleare in qualche documento ufficiale, Veronesi andrebbe denunciato per falso ideologico. E se continuasse a promuovere il nucleare più che a controllarlo violerebbe nella sostanza la Direttiva UE 71/2009, che separa nettamente le due funzioni.
Anche a beneficio del prof. Veronesi, diamo qualche dato. A seconda del tipo di contenitore, la radioattività delle scorie vetrificate a un metro di distanza è di 40, 100 o 200 microSievert all’ora (World Nuclear Transport Institute, luglio 2006). Supponendo che il professor Veronesi dorma 6 ore a notte (è un tipo iperattivo, pare…), ci passerebbe 2.190 ore all’anno, assumendo quindi da 87 a 438 milliSievert (mSv) all’anno (radiazioni gamma e neutroni). La dose massima consentita per un individuo della popolazione è di 1 mSv all’anno. I lavoratori addetti sono, invece, autorizzati a prenderne 20 all’anno. Altro che sonni tranquilli: Veronesi si beccherebbe una dose di radioattività che, grosso modo, è da 80 a 430 volte oltre quella consentita.
Forse il Prof. spera di diventare fosforescente e risparmiare sull’abat jour? Purtroppo così al massimo si fa le lastre ai raggi gamma…
Se invece il professore preferisse tenere in camera da letto materiali nucleari non irraggiati, allora se la passerebbe molto meglio: in questo caso, infatti, si beccherebbe da 1 a 6 microSv all’ora con una dose annuale tra 2 e 12 mSv: dal doppio a 12 volte la dose massima.
Quali le conseguenze? Se, per assurdo, tutti i cittadini italiani seguissero il prof. Veronesi nell’esperimento in questione, avremmo oltre 250 mila casi di tumore fatali all’anno (le stime si riferiscono al tasso di esposizione di cui sopra: non sono di Greenpeace ma dell’ICRP la Commissione Internazionale per la protezione dalla radiazioni). Dubitiamo che basti il Prof. Veronesi a curarli tutti, e sarebbe meglio se il Prof. si facesse almeno un corso rapido sul tema per evitare di dire castronerie del genere.
Il problema è che queste balle non sono le sole di questo suo “battesimo nucleare”. Un’altra riguarda il deposito delle scorie. Il Prof. ci rassicura: questo problema non esiste perché secondo lui le potremo mandare in Spagna dove “c’è una vera e propria gara” dei comuni per accaparrarsi il deposito temporaneo per le scorie nucleari (alla faccia di quei cattivoni di Scanzano Jonico che proprio non ne vollero sapere). In effetti, sugli 8.000 comuni spagnoli, solo 8 comuni (di 5 regioni) hanno dichiarato la loro disponibilità a ospitare le scorie. La gara va male anche perché tutte e cinque le regioni coinvolte si sono un po’ alterate e i parlamenti regionali si stanno opponendo con forza.
Ma qualcuno ha avvisato il governo spagnolo delle intenzioni del nostro futuro Presidente dell’Agenzia di sicurezza nucleare?
Un’altra notizia bislacca (veronesica, potremmo dire) è che in Svizzera sono state “ordinate” tre nuove centrali. Di sicuro ce ne sono tre che devono chiudere e le aziende elettriche le vorrebbero sostituire. La Camera dei Cantoni su iniziativa del Cantone di Basilea, quello più fortemente antinucleare, ha deciso di continuare la procedura decisionale sulle tre centrali che avrà termine con un referendum nel 2013. Mentre da noi i referendum zoppicano, in Svizzera vanno forte: di recente ce ne sono stati due (a carattere locale) che hanno sancito la fuoriuscita dal nucleare di Berna e St Gallen, che si aggiungono alle decisioni antinucleari già prese dalle città di Zurigo, Basilea e Ginevra.
Conclusione: Veronesi straparla del nucleare e vorrebbe essere quello che ci “proteggerà” dalle centrali di Berlusconi e ENEL. Ma chi proteggerà Veronesi da sé stesso? E chi proteggerà noi dalle balle di Veronesi?
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Leggi anche: http://www.terranews.it/news/2010/12/dietro-lo-scenario-spunta-il-bluff-nucleare
Dopo il "Cancun Act", tutto come prima?
Dopo il falso successo del vertice di Cancun, qualche news dal mondo sulle nuove politiche. Nell'ordine:
- A Cancun raggiunto un accordo "di mediazione" sul clima.
- Congresso di Cancun: la svolta della Cina? Un errore di traduzione
- India favorevole a standard vincolanti per emissioni Co2
A Cancun raggiunto un accordo "di mediazione" sul clima. Sarà la base per la Conferenza di Durban del 2011 (Greenme)
Dopo due settimane di negoziati, dalla 16ma Conferenza ONU sul clima di Cancun che si è conclusa ieri notte (stamattina se consideriamo l'orario italiano), i 194 rappresentanti dei governi di tutto il mondo tornano a casa con la consapevolezza di aver gettato le basi per giungere ad un accordo vincolante contro i cambiamenti climatici. Le 32 pagine, composte da sette capitoli, firmate dai grandi della Terra, infatti, fissano gli obiettivi a lungo termine tra cui un fondo verde e il riconoscimento della scienza per fermare il riscaldamento a 2 gradi.
L'accordo, per niente scontato anche se non vincolante, già è stato ribattezzato dai media “pacchetto di Cancun” o "Cancun Act" e, rispetto a quello uscito dal vertice di Copenhagen dello scorso anno, ha intorno a sé un aurea di speranza in quanto rappresenta un punto di partenza concreto per gli ulteriori negoziati del prossimo anno che si svolgeranno in occasione della Conferenza di Durban in Sudafrica (Cop17).
“Dopo Copenhagen i governi sono venuti a Cancun con le ossa rotte ed esposti alla pressione pubblica per l’avvio di iniziative sui cambiamenti climatici – ha commentato Mariagrazia Midulla responsabile clima WWF Italia - Si sperava che Cancun avrebbe potuto stabilire una piattaforma per garantire dei progressi e ora i paesi stanno lasciando la conferenza con un rinnovato senso di buona volontà e obiettivi più concreti.”
Rispetto a Copenhagen, infatti, l'accordo messicano che è stato rifiutato solamente dal capo negoziatore boliviano Pablo Solon, ma approvato comunque dalla presidente Espinosa appellandosi alla clausola che “basta il consenso, non l'unanimità”, è un “pacchetto bilanciato” dove viene ribadita la necessità di far continuare il Protocollo di Kyoto anche dopo la sua scadenza naturale fissata al 2012, ma anche stabilito che i paesi aderenti dovranno impegnarsi a tagliare le loro emissioni di CO2 da un minimo del 25 ad un massimo del 40%. Inoltre nel pacchetto di decisioni è previsto anche il finanziamento a breve termine di 30 miliardi di dollari – 410 milioni messi sul tavolo dall'Italia – per i Paesi in via di sviluppo nel periodo 2010-2013 oltre che ribadito il fondo di 100 miliardi di dollari l'anno (Green climate fund) per far decollare la green economy nel mondo gestito per tre anni dalla Banca mondiale e da 40 Paesi membri (25 emergenti e 15 industrializzati).
"Questo pacchetto di decisioni contiene notevoli passi in avanti di cui abbiamo bisogno – ha commentato a caldo Wendel Trio, direttore di Greenpeace International Climate Policy - anche se non è perfetto. In particolare va apprezzato l'istituzione del fondo per il clima, i progressi in materia di trasparenza, e la conferma che i paesi sviluppati come gli Stati Uniti devono ridurre le loro emissioni".
“Pur non essendo riusciti a decidere per una seconda fase del Protocollo di Kyoto, è stato avviato un processo che consentirà di farlo l’anno prossimo a Durban. - continua Midulla - Tuttavia permangono difficoltà gravi con i paesi contrari e cioè Giappone e Russia, che ora saranno esposti a pressioni crescenti perché si uniscano alla comunità globale nel rinnovo del Protocollo di Kyoto. I paesi firmatari del Protocollo di Kyoto hanno riconosciuto in modo più fermo la necessità di ridurre le emissioni in misura compresa tra il 25 e il 40% entro il 2020 e hanno riconosciuto che i loro impegni per la riduzione delle emissioni rappresentano solo un inizio ed è necessario fare molto di più per raggiungere l’obiettivo condiviso della limitazione dell’aumento della temperatura a 2°C. Nel corso del prossimo anno dovranno tirarsi su le maniche e prepararsi a lavorare in modo duro e creativo per colmare questo divario.”
Molta parte nel trovare l'accordo è stata fatta sicuramente dalla Presidente messicana Espinoza, che è proprio il caso di dire, è riuscita a gestire e disbrogliare le questioni più “spinose”, aiutando ad avvicinare i governi. Come riporta anche il Corriere della Sera, “E’ stata Patricia Espinosa che si è andata a prendere ad uno ad uno i dissenzienti di Kyoto, a cominciare dal Giappone. E’ stata lei a convincere anche la Russia ed il Canada. Lei che si è presa le lodi, pubbliche e sperticate, di un paese affatto docile, come l’India, per bocca del suo ministro Ramesh”. “La Presidenza ha saputo creare un’atmosfera improntata all’inclusione e all’efficienza che ha aiutato in modo diretto i paesi a ritrovare fiducia nel processo UNFCCC”, commenta il WWF che rispetto alle azioni decise dal Cancun Act continua:
“I governi hanno sostenuto la creazione di un nuovo “fondo verde” globale, ma ora hanno bisogno di identificare fonti di finanziamento innovative, come un sistema di prelievi imposti al settore internazionale dei trasporti aerei e marittimi, attualmente non regolamentato, che sarebbe rivolto all’8% delle emissioni globali e simultaneamente sarebbe in grado di garantire miliardi di dollari di finanziamenti di lungo termine".“La decisione riguardante le emissioni derivanti dalla deforestazione (REDD+) non ha incluso tutto ciò che avremmo desiderato, ma garantisce una solida base per far avanzare un processo REDD credibile e per creareun’agenda per il lavoro futuro.”
Dello stesso parere anche Greenpeace: " il meccanismo REDD sarebbe un passo importante per le foreste, ma è un po 'un passo ubriaco, in quanto i paesi hanno preferito l'ambiguità alla chiarezza. Tuttavia passi in avanti sono stati fatti e questa potrebbe essere la base per una decisione tanto più forte in futuro".
“E’ ancora presto per essere ottimisti ma i risultati del vertice di Cancun sono sicuramente incoraggianti soprattutto rispetto a quelli del precedente summit di Copenaghen. - dichiara anche il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza - L’accordo sul trasferimento di tecnologie ai Paesi in Via di Sviluppo e sulla protezione delle Foreste rappresentano positivi passi avanti così come aver riconosciuto la necessità di un obiettivo di riduzione delle emissioni al 2020 tra il 25 e il 40%. Restano tuttavia dei grossi nodi da sciogliere, come la questione della ripartizione delle quote e i sistemi di verifica. Ci aspettiamo ora che l’Europa mantenga la linea tenuta fino ad oggi e che l’Italia la segua senza ulteriori indugi. Chiediamo al governo, alle imprese e ai sindaci d’intervenire con incisività nella riduzione delle emissioni. Il primo passo è rinunciare all’utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica”.
Insomma, volendo tirare le somme, si tratta di un accordo che potremmo definire “di mediazione”, in fondo non così diverso da quello raggiunto a Copenhagen che però, anche a sentire le associazioni, sembra un successo date le poche aspettative che ruotavano intorno a questa conferenza, al contrario del clima di speranze che ha accompagnato la Cop15 dello scorso anno, circondata da un'attenzione mediatica ben diversa da quella che ha caratterizzato il vertice messicano, passato praticamente nell'indifferenza di quotidiani e televisioni. Questioni di aspettative dunque? Calcolando che già da ora sono tante quelle che si stanno riversando sulla prossima conferenza di Durban in Sud Africa, tra un anno speriamo proprio di non dover scrivere la parola fallimento perché in tal caso il mondo potrebbe davvero non sopportare le conseguenze. Anche perché, poi, non si potrà più procrastinare: il Protocollo di Kyoto scadrà e il 2012 è una data troppo vicina alla parola “fine”.
Congresso di Cancun: la svolta della Cina? Un errore di traduzione (Ecologiae)
Le speranze che il congresso di Cancun potessero essere un successo sono durate appena un paio di giorni, il tempo che i delegati cinesi correggessero il tiro. La cosiddetta “svolta verde della Cina” che qualche giorno fa sembrava dover portare al prolungamento del Protocollo di Kyoto e all’impegno da parte dei Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni è stato solo un errore di traduzione.
E’ bastato che l’addetta alla traduzione dal cinese all’inglese prendesse lucciole per lanterne che immediatamente si è scatenato un polverone. Todd Stern, capo negoziatore degli Usa, aveva immediatamente capito cosa stava accadendo, ma quando cercava di spiegarlo ai giornalisti, questi erano convinti che fosse solo una tattica per prendere tempo perché la dichiarazione cinese aveva colto tutti di sorpresa, Stati Uniti compresi. Ieri purtroppo siamo tornati con i piedi per terra.
Il capo delegazione Xie Zhenua ha preso la parola e, nonostante non abbia detto apertamente che la traduzione fosse sbagliata, ha però spiegato, stavolta in inglese in modo che tutti potessero capire, la posizione del suo Paese: sì agli investimenti sulle rinnovabili, sì alla riduzione “generica” della CO2, ma nessun impegno vincolante sui numeri né limiti allo sviluppo industriale. Come in un gioco dell’oca, siamo tornati al punto di partenza.
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India favorevole a standard vincolanti per emissioni Co2 (Reuters)
L'India ha fornito il suo contributo ai tormentati colloqui Onu sul clima dando oggi la disponibilità ad accettare eventuali standard vincolanti per quanto riguarda le emissioni. Lo riportano alcuni quotidiani nazionali, sottolineando come il governo abbia radicalmente cambiato opinione su questo tema.
L'India, infatti, è al terzo posto nel mondo per quanto riguarda le emissioni di gas serra dopo Stati Uniti e Cina, e la rapida crescita economica, con il relativo innalzamento dei consumi, sta provocando anche un aumento della produzione di diossido di carbonio provocato dalle centrali elettriche a carbone, dai trasporti e dalle industrie.
Ma il governo aveva a lungo rifiutato di sottoporsi a standard legalmente vincolanti per quanto riguarda le emissioni, ritenendo questo tipo di accordo un danno per la crescita economica del paese.
Ma il ministro dell'Ambiente Jairam Ramesh, parlando a margine dei colloqui Onu sul clima a Cancun, ha detto che era giunto il momento per l'India di cambiare posizione accettando gli standard vincolanti all'interno di un nuovo patto sul clima.
"Dobbiamo accettare che la realtà globale sta cambiando. Il G77 sta invocando un accordo vincolante", ha detto Ramesh in un'intervista all'Hindustan TImes, facendo riferimento ai 131 stati membri del gruppo delle nazioni in via di sviluppo, di cui l'India fa parte.
"Io ho solo detto che tutti i paesi dovrebbero mirare ad obiettivi che siano vincolanti, all'interno di un'intesa appropriata", ha spiegato il ministro.
I colloqui sul clima dello scorso anno a Copenaghen si chiusero con un accordo non vincolante invece di un nuovo patto che prendesse il posto del Protocollo di Kyoto dal 2013.
8 dicembre 2010
Henan, 20 vittime in miniera
Fonte: Repubblica.it
"Tredici persone sono morte in un'esplosione in una miniera di carbone nella provincia cinese di Henan. Secondo l'agenzia Xinhua, l'incidente e' avvenuto mentre sotto terra erano a lavoro 33 minatori. Di questi, solo 20 sono riusciti a salvarsi. Sono frequenti gli incidenti nelle miniere cinesi: secondo le autorita', solo l'anno scorso sono morti 2.631 minatori. Statistiche indipendenti parlano di un numero molto piu' alto di vittime."
Aggiornamento: le vittime accertate sono 20
Celebrato il 6 dicembre l'anniversario della strage di Monongah
Venerdì 6 dicembre 1907, ore 10.30 del mattino. Nella miniera di carbone di Monongah (West Virginia) della Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore, si verifica un'esplosione avvertita fino a 30 Km di distanza. E' il più grave disastro minerario che la storia degli USA ricordi, ma l'incidente rappresenta anche la più grave sciagura mineraria italiana: su circa 400 minatori morti, oltre la metà erano italiani, quasi tutti originari del Molise.
Inghilterra, sondaggio tra i giovani: il 94% vuole le rinnovabili
Fonte: Notizie.Virgilio.it
Scienza/ Energia,giovani Gb bocciano carbone e votano rinnovabili
Ricerca del Department of Energy and Climate Change (DECC)
I giovani britannici sposano le energie rinnovabili e bocciano il carbone. Lo dice una ricerca del britannico Department of Energy and Climate Change (DECC). Un gruppo di 299 ragazzi tra i 16 e i 25 anni è stato portato a visitare e conoscere vari impianti di produzione di energia: centrali elettriche, centrali nucleari e progetti che promuovono le fonti rinnovabili. Hanno potuto dialogare con gli esperti, fare domande ai rappresentanti dell'industria e incontrare i
gruppi di pressione. Il risultato non lascia dubbi: il 94% di questi ragazzi ha concluso che le migliori tecnologie energetiche sono l'eolico off-shore e l'energia solare. L'81% sostiene anche l'eolico a terra. Decisamente poco apprezzato il carbone, scelto solo dal 2,2% dei ragazzi. Lo studio fa parte della campagna del Regno Unito per assumere, nelle decisioni politiche sull'energia, anche il punto di vista di chi dovrà convivere con i risultati di quelle decisioni.
7 dicembre 2010
Disastro in Colombia: è questo il "carbone pulito" di ENEL, SEI & co.
Un bell'articolo di Stefania Summermatter, da swissinfo.ch
E' proprio questo: il "carbone pulito" di enel e della svizzera SEI
"Colombia, il lato oscuro delle miniere svizzere di carbone
In Colombia le attività minerarie hanno portato ricchezza, ma non per tutti. Se le multinazionali continuano a espandersi, il prezzo da pagare per le comunità locali è altissimo: villaggi evacuati, fiumi inquinati, sindacalisti messi a tacere. Violazioni che chiamano in causa pure un'impresa svizzera, che respinge però ogni accusa.
La Colombia è il quinto paese esportatore di carbone al mondo. Dalle miniere del nord, questa materia prima viene trasportata fino in Europa – soprattutto in Germania – e utilizzata per la produzione di energia elettrica. Le centrali a carbone tedesche riforniscono in parte anche le società svizzere, che negli ultimi anni hanno aumentato i loro investimenti nel carbone per coprire il fabbisogno di base.
In diversi paesi europei, l’utilizzo di questo combustibile fossile ha incontrato l’opposizione degli ecologisti per l’elevato tenore di emissioni di CO2 che diffonde nell’atmosfera. Le incognite legate al carbone non si limitano però alle sole centrali, ultimo anello di una catena produttiva, ma si spingono fino alle grandi miniere a cielo aperto che hanno ridisegnato il volto della cordigliera andina.
In paesi come la Colombia, l’estrazione del carbone è all’origine d’importanti violazioni dei diritti umani e del deterioramento dell’ecosistema. La denuncia non è nuova: da diversi anni infatti Amnesty International e il Gruppo di lavoro Svizzera Colombia si battono affinché le materie prime tornino a essere una risorsa per le comunità locali.
«La situazione nel nord della Colombia è particolarmente difficile. Per anni è stata teatro di scontri tra la guerriglia, le forze paramilitari e l'esercito statale», spiega Alfredo Tovar, sindacalista e operaio in una miniera del dipartimento del César. «E a farne le spese è soprattutto la popolazione locale: intere famiglie sono state allontanate o sono scomparse nel nulla. Lavoratori, rappresentanti comunali e dirigenti sindacali sono stati messi a tacere, o uccisi».
Alfredo Tovar è venuto fino in Svizzera per chiedere giustizia. Rivendica assicurazioni sociali per tutti gli operai, norme di sicurezza nelle miniere e un indennizzo alla popolazione per i danni subiti. «L’impatto ambientale dell’estrazione del carbone è enorme: i fiumi vengono contaminati e con essi anche la terra e il bestiame. Ciò significa che quei contadini che vivevano di agricoltura e pesca, ora non hanno più nulla da mangiare. Inoltre, dalle miniere si sprigiona una nube di polvere nera che è all’origine di gravi problemi respiratori».
Multinazionale svizzera nel mirino
In Colombia l'estrazione delle materie prime è, di fatto, monopolio di una manciata di multinazionali, alcune delle quali hanno sede in Svizzera. Alfredo Tovar lavora da anni alla miniera La Jagua, di proprietà della Glencore International AG tramite la società colombiana Prodeco.
Poco conosciuta dal grande pubblico, la Glencore International AG ha la sede principale nel canton Zugo e negli ultimi anni ha realizzato il fatturato più elevato della Svizzera (117 miliardi di franchi nel 2009), superando giganti come la Nestlé o la Novartis. In Colombia controlla due miniere di carbone a cielo aperto nel dipartimento del César e ha un accesso privilegiato al porto di Santa Marta (Magdalena).
Accompagnato da rappresentanti delle ONG svizzere, per conto del sindacato colombiano Sintramienergetica, Alfredo Tovar ha bussato alla porta della Glencore International AG, senza però ottenere risposta. La multinazionale è accusata di promuovere una politica poco trasparente, ostile ai sindacati e nociva all’ambiente.
«Non possiamo negare che la Glencore abbia portato lavoro in Colombia, ma questo non le conferisce il potere di violare i diritti dei lavoratori, di ostacolare la libertà sindacale, minacciando o licenziando gli operai che osano alzare la testa», denuncia Alfredo Tovar.
Nei dipartimenti del César e della Magdalena si concentra gran parte della ricchezza del paese, ma spesso i villaggi sono lasciati senza acqua potabile, elettricità e servizi sanitari. «La manodopera arriva soprattutto da altre regioni del paese e i profitti se ne vanno all’estero… mentre qui resta solo contaminazione e povertà. Come dipendente della Glencore chiedo un indennizzo alla regione per i danni causati e per il carbone che portano via, e chiedo il rispetto degli accordi sindacali che hanno firmato con noi lavoratori».
Non solo miniere
La Glencore International AG è rimasta sorda di fronte all’appello di Alfredo Tovar e delle ONG svizzere. Anche ai microfoni di swissinfo, l’azienda non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Ha invece risposto con un comunicato stampa – firmato dalla società Prodeco – in cui afferma di avere un programma di responsabilità sociale e ambientale.
In sostanza, la multinazionale si presenta come il motore economico della regione: non solo ha messo a disposizione «oltre 5'000 impieghi (diretti o indiretti), di cui l’84% dei dipartimenti del César e della Magdalena)», ma ha anche cercato di «migliorare la qualità di vita delle comunità locali, attraverso la creazione di scuole e altre infrastrutture».
Alle accuse di violazione dei diritti sindacali, la società con sede a Zugo dice di agire «in conformità con le leggi colombiane che garantiscono libertà di associazione, vietano il lavoro forzato e assicurano condizioni di lavoro umane».
La Svizzera media, ma non interviene
La Glencore non è però nuova a questo tipo di denunce. Accusata di violazioni dei diritti umani e danni ambientali in diversi paesi in via di sviluppo, nel 2008 ha ricevuto il Public eye award di Davos, l’oscar della vergogna.
Di fronte alla gravità delle accuse, le ONG svizzere hanno chiesto a più riprese un intervento da parte delle autorità elvetiche. «La risposta è sempre la stessa», ci spiega Stephan Suhner dell’ONG Ask! (Gruppo di lavoro Svizzera-Colombia). «La Svizzera segue da vicino i dibattiti sull’industria estrattiva nei paesi del Sud, ma mantiene il massimo riserbo per non intromettersi in questioni di politica interna». Il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) si limita così a «invitare le imprese ad attenersi ai principi volontari in materia di sicurezza e diritti umani», senza però intervenire.
Ai microfoni di swissinfo, il portavoce del DFAE Pierre-Alain Eltschinger ha precisato che «la Svizzera segue da vicino questo caso, in particolare per ciò che riguarda il rispetto dei diritti umani, ed è in contatto regolare con le imprese elvetiche coinvolte, la Glencore, i sindacati e le ONG colombiane». Inoltre, prosegue Eltschinger, «l'ambasciata svizzera in Colombia cerca di favorire il dialogo tra le multinazionali e le organizzazioni a difesa dei lavoratori» .
Alfredo Tovar è tornato in Colombia senza risposte. Ad attenderlo c'è una regione messa in ginocchio da anni di violenze e soprusi, la paura di ritorsioni e l'incertezza del domani. In Svizzera restano i profitti di un'attività ritenuta arbitraria e un monito che ha il sapore della lotta operaia: «L’acqua non è negoziabile. La vita non è negoziabile!».