Apriamo l'anno con notizie importanti.
Fonte: http://www.centumcellae.it/politica/costa-stop-al-carbone-a-tvn-entro-il-2025/?fbclid=IwAR1_7e3e_6ET3Jx4HrEk-M5OJ9W-0q6PNquitOSQ6tMPk7NRYGOq6kXjvQo
Apriamo l'anno con notizie importanti.
Dagli amici di No al carbone Saline Joniche, comunicato stampa
L’ultima vergogna del governo dei tecnici, è stata perpetrata, nel silenzio assoluto, il 5 aprile 2013. Provoca sconcerto in tutta l’Area Grecanica l’approvazione della V.I.A. per la costruzione della centrale a carbone della SEI-Repower, da parte del governo Monti con un decreto ministeriale a firma del Ministro Clini che nelle conferenze parla di difesa del territorio ed energie rinnovabili salvo poi, nel segreto della stanza dei bottoni, dimenticarsi di essere a capo del dicastero dell’ambiente, avallando progetti dannosi.
A distanza di qualche settimana il poliedrico ministro Clini ha apposto la sua firma su una catastrofe che rischia di abbattersi sulla nostra terra, autorizzando la V.I.A., ed allo stesso tempo è riuscito a dichiarare in occasione della prima tappa dell’ “Eart(h)”, la manifestazione itinerante promossa dal Ministero dell'Ambiente, che per uscire dalla crisi bisogna investire in “politiche di difesa del territorio, che puntano all’eco-sostenibilità e al risparmio energetico”.
Avevano tentato già il 15 giugno con l’emanazione del DPCM, a firma del Presidente del Consiglio Mario Monti, di dare esecuzione alla V.I.A., ma la Corte dei Conti aveva rispedito al mittente l’atto perché aveva chiesto dei chiarimenti su una serie di punti precisi e determinanti che il Governo non è stato in grado di fornire.
Il progetto scellerato e osteggiato dalle amministrazioni e da i cittadini aveva avuto, quindi, uno stop a causa delle numerose omissioni e forzature. Questo decreto tenta, dunque, di bypassare il mancato visto della Corte dei Conti, ma non risolve, tra le tante cose, il conflitto di competenza tra stato e regione in materia di strategia energetica.
Le 59 prescrizioni che il governo ha imposto alla SEI-Repower la dicono lunga sulla lacunosità del progetto.
Un colpo di coda degno della peggiore politica italiana che di nascosto, sottobanco, fa le cose più infime.
Un’approvazione data nel pieno disprezzo verso la popolazione calabrese e verso la volontà delle amministrazioni Regionali, Provinciali e Comunali e dei cittadini da essi rappresentati.
Un colpo di coda di un governo dimissionario e dimissionato che, dopo le ultime elezioni, aveva come unico compito quello di svolgere attività di ordinaria amministrazione e che, invece, si arroga il diritto di decidere la strategia energetica italiana.
Insieme alla V.I.A. per Saline Joniche sono stati approvati altri progetti che provocheranno scempi ambientali e danni per la salute delle popolazioni.
Le recenti vicende di cronaca giudiziaria hanno messo in luce l’interesse della ‘ndrangheta nei confronti della centrale a carbone di Saline Joniche. Secondo le ipotesi degli inquirenti sarebbe stata la stessa SEI-Repower a cercare, attraverso un suo fidato collaboratore, i contatti con la criminalità organizzata.
La conoscenza di questi fatti rende ancora più inspiegabile l’approvazione della V.I.A. e getta ombre inquietanti sulle motivazioni che hanno portato, dietro chi sa quali pressioni, il governo a dire si ad un progetto insensato in una zona che ha nel turismo, nell’agricoltura, nelle bellezze naturalistiche e nella cultura i suoi punti di forza.
Il futuro di questa terra non può essere deciso dalle lobbies dell’energia, dai poteri forti e da chi intende speculare sulla pelle dei cittadini. Il Coordinamento Associazioni Area Grecanica, che non ha mai abbassato la guardia, impugnerà l’atto e continuerà, appoggiato dal volere della totalità delle persone oneste che abitano il territorio reggino, a dare battaglia contro un progetto che, se realizzato, porterebbe alla rovina per queste zone e per i suoi abitanti.
Da Greenreport
"Christina Larson, una giornalista che si occupa di tematiche ambientali internazionali per The New York Times, The International Herald Tribune e The New Republic, scrive su "Yale Environment 360" che « Nella sua ricerca per trovare nuove fonti di energia, la Cina si rivolge sempre più alla ricerca di sue province occidentali. Ma la spinta della nazione a sviluppare fonti alternative ai combustibili fossili ha finora ignorato un fatto fondamentale: la Cina occidentale non ha semplicemente le risorse idriche necessarie per sostenere un nuovo importante sviluppo energetico». La Larson spiega: «Se si sorvolasse la grande distesa della Cina continentale durante la notte, si troverebbero ammassi di luci intorno alla costa orientale: città tentacolari e popolose come Pechino, Tianjin, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen. Ma più lontano si viaggia verso ovest, meno si incontrano queste megalopoli illuminate»
La Cina ha grandi città anche all'interno, ma sono meno numerose e più piccole delle megalopoli costiere cresciute senza controllo e gonfiate dall'immigrazione, dove si concentrano gli affari, le industrie ed il fabbisogno energetico cinese. Ma le risorse energetiche della Cina, sia rinnovabili che quelle dei combustibili fossili, si trovano soprattutto nelle sue regioni periferiche (e spesso problematiche), come quella nord-occidentale del Gansu, poco popolata, ventosa e soleggiata, che è rapidamente diventata un hub dello sviluppo dell'energia eolica e solare. Mentre le miniere di carbone delle regioni orientali si stanno rapidamente esaurendo (o non sono più economicamente sfruttabili) le nuove frontiere del carbone cinese si sono spostate nelle regioni autonome della Mongolia e dello Xinjiang,Uigur e nelle province occidentali di Qinghai, Ningxia, Shanxi, Shaanxi e Gansu, tutte molto lontane da dove l'energia prodotta dal carbone verrà consumata, «E questo è un guaio - spiega la Larson - Il trasporto del carbone dalle miniere occidentali su lunghe distanze, via ferrovia o camion, o chiatte lungo il fiume Yangtze, è un'impresa costosa e fastidiosa». Le spese di trasporto possono arrivare ad oltre il 50% del costo finale del carbone e in condizioni meteorologiche avverse il trasporto diventa problematico. Nel 2008 una tempesta di neve nella Cina sud-orientale bloccò le principali linee ferroviarie e la mancanza di carbone provoco blackout in diverse città sud-orientali La grave siccità dell'estate 2011 ha impedito il transito delle chiatte di carbone sul basso corso dello Yangtze, e la più grande utilty elettrica di Shanghai annunciò blackout a rotazione nelle industrie della città più ricca e moderna della Cina. Il regime comunista è corso ai ripari e nell'ultimo piano quinquennale prevede un aumento della produzione di carbone e l'eliminazione dei "colli di bottiglia" per facilitare il suo trasporto dall'interno verso la costa. Ma prevede anche lo sviluppo e l'espansione di 14 grandi "coal-industry basis" in tutta la Cina occidentale dove chiudere il ciclo del carbone: estrazione, trasformazione e utilizzo nelle centrali termoelettriche, poi l'energia prodotta verrà convogliata da una nuova colossale rete di distribuzione verso le città orientali. «Ma gli impatti ambientali della realizzazione di tali piani non sono stati ancora pienamente considerati - sottolinea la Larson - In Cina oggi l'80% dell'elettricità totale è prodotta dal carbone. Sì, è vero che è in aumento anche il contributo da fonti rinnovabili, forse avete visto le foto di nuove scintillanti turbine eoliche nei deserti della Cina, ma l'energia verde non sta attualmente sostituendo le fonti fossili, le sta integrando. Entrambe sono in rapida crescita».
Secondo i dati del Dipartimento dell'energia Usa, tra il 2000 e il 2010, il consumo totale di carbone della Cina è triplicato, la dipendenza della Cina dal carbone quindi non finirà presto, come a volte sembra voler far credere il governo annunciando la chiusura di vecchie miniere e centrali, ma continuerà a lungo. Però la realizzazione dei complessi carbonifero-energetici nelle regioni occidentali sta affrontando un inaspettato quando insormontabile ostacolo: l'industria del carbone ha bisogno di enormi quantità d'acqua (più di un quinto del consumo di acqua della Cina deriva proprio dal complesso carbonifero-energetico), ma gran parte della Cina occidentale è già colpita dalla siccità e dalla desertificazione».
«La parte occidentale della Cina è un'area ecologicamente fragile - spiega Wang Xiujun, un climatologo dell'Istituto Xinjiang di ecologia e geografia e dell'università del Maryland - Non c'è molta acqua da sprecare» e Sun Qingwei, climate and energy campaigner di Greenpeace China, che prima lavorava per un centro di ricerca governativa nella provincia del Gansu, sottolinea: «Quando una nuova industria arriva in una città, l'acqua viene garantita da laghi e fiumi, dal pompaggio delle acque sotterranee e dalla costruzione di dighe per stoccare l'acqua piovana, il che devia il suo flusso normale e il riassorbimento nel terreno. Tutti e tre hanno conseguenze ambientali impreviste. Non c'è acqua a sufficienza per sostenere così tante attività e industrie del carbone nella Cina occidentale. Se le risorse idriche vengono sfruttate dall'industria del carbone, questo porterà al degrado del suolo e alla desertificazione e danneggerà il sostentamento delle comunità locali». Greenpeace China sta lavorando ad un rapporto e ad una mappatura della disponibilità di acqua nella Cina occidentale per ostacolare la realizzazione dei mega-impianti carboniferi.
Un pessimo esempio di quel che potrebbe succedere esiste già nella Mongolia Interna, dove le praterie si stanno trasformando in quella che i mongoli chiamano "una ciotola di polvere". Negli ultimi 10 anni, mentre venivano realizzate miniere di carbone, impianti petrolchimici e centrali elettriche, alimentati da pozzi, le falde idriche sprofondavano e grandi praterie, come quella di Xilingol, sono diventate improduttive e la zona umida di Wulagai si è completamente prosciugata. «L'industria del carbone ha cambiato l'ambiente in quanto utilizza l'acqua del sottosuolo - ha detto alla Larson il ricercatore Da lintai, che lavora all'Inner Mongolian University - Probabilmente anche il cambiamento climatico ha contribuito alla desertificazione nella Mongolia Interna. Il risultato è che è più difficile ora per i pastori trovare aree con risorse idriche sufficienti. E la mancanza di acqua influenza anche la crescita dell'erba per nutrire i loro animali».
Nel maggio 2011, vicino Xilinhot, nella Mongolia Interna, un pastore è stato ucciso da un camion che trasportava carbone, le violente proteste avvenute dopo l'incidente sono state presentate dalla stampa cinese come disordini etnici, perché il pastore apparteneva alla minoranza mongola e l'autista era un cinese han, ma la gente del posto dice che le divisioni etniche non c'entrano niente e di essere arrabbiata con gli autisti dei camion che trasportano il carbone perché rappresentano il simbolo di un'industria odiata, che con il suo arrivo ha distrutto i loro mezzi di sussistenza e il loro ambiente.
Il governo cerca di affrontare il problema con il risparmio dell'acqua: nella Ningxia è stata inaugurata nel 2010 una centrale a carbone raffreddata ad aria che utilizza un quinto dell'acqua necessaria nelle altre centrali, ma i costi di costruzione di questi nuovi impianti sono moto più elevati di quelli tradizionali e si stanno rivelando un ostacolo per una loro adozione diffusa. «Quel che sta gradualmente diventando evidente, in Cina come altrove, è che l'energia e l'acqua devono essere pianificate insieme» ha detto Jennifer Turner, direttrice del Woodrow Wilson Center's China Environment Forum, durante un recente meeting, ospitato dall'ufficio di Pechino di Nature Conservancy. La Turner ha definito la cosa «Nesso acqua-energia» ed ha concluso: «La necessità di salvaguardare l'acqua in Cina è oggi particolarmente urgente, perché, con il cambiamento climatico, la Cina sta già perdendo acqua ogni anno».e
Durban: nulla di fatto, una Conferenza planetaria sul clima perfettamente inutile, che non porta risultati se non il prolungamento del trattato di Kyoto fino al 2020 e un rimandare di fatto ogni tipo di accordo. Non possiamo permettercelo.
Il nostro Ministro dell'ambiente Clini, nel commento post conferenza afferma:
"Non sono i target globali che salveranno il pianeta, ma le misure concrete prese dalle comunità locali
...
L’efficienza di una grande centrale alimentata con i combustibili fossili arriva nella migliore delle ipotesi al 50 per cento. Un altro 15 per cento va perso nella trasmissione sulle reti ad alta tensione. La generazione distribuita di energia con le fonti rinnovabili raggiunge invece livelli di efficienza almeno del 30 per cento più alti e quindi ha molto più senso dal punto di vista industriale. Il sistema dei grandi monopoli che hanno dominato il mondo dell’energia negli ultimi cinquant’anni non è più compatibile con la necessità di uno sviluppo sostenibile"
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Da VocedItalia
"Mentre Assocarboni annuncia l’incremento del 7% delle importazioni di carbone in Italia per l’anno 2011 (a fronte di una media globale che raggiunge a malapena i cinque punti percentuali) il Partito Pirata critica le scelte della politica energetica made in Italy, scelte che non prendono in considerazione i fenomeni globali, gli impegni internazionali e il rispetto per l’ambiente.
“L’Italia dopo aver archiviato la pratica nucleare – fa sapere l’ingegner Marco Masini, responsabile nazionale delle politiche energetiche e ambientali del Partito Pirata – cerca ora di soddisfare la fame di energia con il carbone. Ma se il nucleo atomico ha problemi, il carbone ne ha ancora di più. Non si può turare una falla con un cavatappi!”.
“L’intensità energetica del carbone è molto inferiore a quella del petrolio, e ha un contenuto di carbonio molto più alto. Questo determina un grande potere inquinante, che si può limitare solo a fronte di ingenti investimenti”. Senza poi dimenticare il trasporto stesso, “che induce un fenomeno di inquinamento indiretto molto importante, e di certo maggiore rispetto a quello del petrolio”.
Esistono altre soluzioni, ci sono altre strade da seguire. “Il geotermico italiano, dopo una fase iniziale di espansione ed interesse che ha fatto dell’Italia un’apripista con i giacimenti di Larderello, ha smesso di investire in questa direzione. Non ci sono investimenti in ricerca e in sviluppo sufficienti, e non si pensa strategicamente al contributo delle rinnovabili. Che possono giocare un ruolo significativo”.
"Dal 28 novembre 2011 al 9 dicembre 2011 si terrà la conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Questa conferenza annuale, la 17° sul clima in sede Onu, segue ai precedenti vertici di Copenaghen (2009) e Cancun, Messico (2010) entrambi conclusosi mettendo in evidenza la mancanza di volontà politica dei governi di farsi carico della principale minaccia che l'umanità sta affrontando: i cambiamenti climatici.
Anche Durban, al di là di ogni ragionevole dubbio, sarà un fallimento annunciato. Mentre le piccole isole-stato sprofondano a causa dei cambiamenti climatici, i paesi industrializzati continuano a eludere il raggiungimento di un accordo vincolante. Stati Uniti e Cina, i due paesi più inquinanti a livello mondiale, negano le loro responsabilità.
Già a Cancun un anno fa è stato rafforzato l'impianto che vuole trattare la crisi ecologica e climatica attraverso un processo di ulteriore mercificazione della natura, rafforzando i mercati del carbonio, costituendo un paradossale diritto ad inquinare da parte dei paesi ricchi e creando, a garanzia di questi, un fondo gestito dalla Banca Mondiale. Presente con una folta delegazione alle mobilitazioni e al forum alternativo di discussione che hanno accompagnato i lavori del vertice ufficiale, RIGAS ha denunciato la firma di un accordo non vincolante che ha il solo fine di tutelare il sistema capitalistico e condurre alla finanziarizzazione delle risorse naturali."
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dal Corriere.it
Da LaStampa
L’emergenza climatica non è più solo un fatto ambientalistico, e neppure economico: si sta trasformando in problema di sicurezza. L’innalzamento dei mari minaccia di far sparire interi Paesi, e già riduce i terreni agricoli e quindi le risorse alimentari. I fiumi che si asciugano, le siccità come quella esplosa in Somalia, provocano nuovi conflitti o inaspriscono quelli già in corso. La diminuzione di risorse essenziali come l’acqua e il cibo, poi, favorisce l’emigrazione, creando una nuova categoria: i rifugiati del riscaldamento globale.
Qualcosa si muove, ma è davvero poca roba. Fonte
"L'Australia ha scelto la via più diretta (e ardua) per combattere l'inquinamento e puntare alle fonti rinnovabili: la tanto annunciata e altrettanto osteggiata carbon tax è ora un progetto di legge. Come ha dichiarato il premier Julia Gillard, che è riuscita a coalizzare tutta la sua esile maggioranza su questo provvedimento, le 500 imprese più inquinanti del Paese dovranno pagare 23 dollari australiani (circa 17 euro) per ogni tonnellata di CO2 emessa, da metà 2012 al 2015, con incrementi annuali della tassa pari al 2,5 per cento. Nel 2015 si passerà invece a un sistema di mercato “cap and trade” sulla scia di quello europeo, con la possibilità di vendere e acquistare i crediti di emissione a prezzi variabili e fissando dei tetti annuali alla quantità massima di emissioni per ogni settore industriale.
È una vera rivoluzione per un Paese che produce l'80% dell'energia elettrica nazionale con le centrali a carbone, tanto da essere ai primi posti nel mondo per emissioni pro capite di CO2. Con la carbon tax, il governo pensa di ridurre del 5% le emissioni inquinanti nel 2020, rispetto ai livelli del 2000 (159 milioni di tonnellate di CO2 in meno). Anche se arriverà l'approvazione dai due rami del Parlamento, l'esecutivo Gillard dovrà fronteggiare una crescente opposizione alle sue misure ambientaliste; sul piede di guerra, infatti, ci sono non soltanto le industrie minerarie, siderurgiche e le compagnie aeree, ma anche i cittadini che temono l'impennata delle bollette elettriche. Il Governo, però, ha dichiarato che stanzierà circa tre miliardi di dollari per compensare l'introduzione della tassa, con riduzioni fiscali alle famiglie e finanziamenti per le rinnovabili e l'efficienza energetica.
Secondo Carbon Tracker gli investimenti in fonti fossili di energia sono eccessivi rispetto alle quantità effettivamente estraibili e utilizzabili nel prossimo futuro.
Fonte: Qualenergia
Gli investimenti nelle fonti fossili potrebbero esser i nuovi subprimes. C'è un rischio sistemico profondo, ma trascurato nel mercato finanziario mondiale, che potrebbe portare danni peggiori di quelli dell'ultima crisi economica e finanziaria. Una quantità enorme di denaro è infatti impegnata in carbone, petrolio e gas che in futuro probabilmente non potranno essere estratti. Investimenti spesso a medio e lungo termine nelle fonti fossili compiuti anche da grandi fondi pensione e Stati, senza guardare al quadro macro della situazione: con le politiche necessarie a limitare il riscaldamento globale, circa l'80% delle riserve su cui si è finora investito non potrà essere sfruttato.
E' questo il sunto estremo di un interessante studio appena pubblicato da Carbon Tracker Initiative (vedi allegato). Se nel mondo crescono gli investimenti in tecnologie pulite (si veda l'ultimo report REN 21 su Qualenergia.it, Le fonti
rinnovabili, il primo driver della crescita mondiale), l'economia mondiale continua a puntare ancora molto su carbone, gas, petrolio e altri settori ad alta intensità di CO2: si pensi ad esempio al piano da 100 miliardi di dollari di Shell per aumentare l'output a 3,7 milioni di barili al giorno entro il 2014. Ma gli investitori – denuncia il report – non stanno tenendo conto dei limiti alla quantità CO2 che si potrà emettere. Quanta parte di quelle riserve su cui si sta investendo dovrà essere lasciata sottoterra?
Sono calcoli che invece il report riporta chiaramente, riprendendo quelli del Potsdam Insitute. Per ridurre fino al 20% la possibilità che la febbre del pianeta superi la soglia dei 2°C di aumento della temperatura globale, da qui al 2050 si potranno emettere 'solo' 565 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2. Le riserve conosciute di fonti fossili se bruciate ne produrrebbero 2.795, il 65% dal carbone, il 22% dal petrolio e il 13% dal gas (vedi grafico in alto). Potremmo allora usarne solo il 20%. Le riserve in possesso delle 100 più grandi compagnie quotate nel carbone e delle 100 del petrolio ammontano ad un equivalente in CO2 di 745 Gt: 180 in più di quello che potremo bruciare fino al 2050. In aggiunta ci sono anche le riserve di proprietà degli Stati: ne emerge che, per stare sotto ai 2°C, di tutte le riserve controllate dalle grandi compagnie quotate, si potranno usare solo gas, carbone e petrolio per l'equivalente di 149 Gt CO2.
"Questo significa - denuncia lo studio – che governi e mercati globali stanno trattando come assets riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l'economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche.
Fonte: ANSA
"Ancora una volta questo governo di centrodestra, leghista ed antimeridionalista, si prende gioco della Calabria e mostra in maniera chiara ed inequivocabile di considerare questa parte del Paese non una risorsa ma una grande pattumiera''. E' quanto denuncia il Consigliere regionale della Calabria, del Pd, Carlo Guccione.
''Il Governo Berlusconi, infatti - prosegue - ha introdotto nel collegato alla manovra finanziaria, una 'norma-vergogna', che espropria i calabresi e le istituzioni locali del diritto di poter decidere liberamente e autonomamente del destino dei propri territori''.''Per effetto di questa norma'', aggiunge, ''le Centrali Enel di Rossano e Saline Joniche, per le quali l'intera Calabria, i Comuni della zona jonica cosentina e reggina, le Province di Cosenza e Reggio Calabria e il Consiglio regionale nella sua unanimita' - dice Guccione - hanno detto no alla riconversione a carbone, potrebbero ora essere riconvertite''.
Secondo il consigliere, si tratta dell'''ennesimo tentativo di esautorare i poteri che in materia ambientale hanno proprio le Regioni e gli enti locali''.
Sullo stesso argomento anche Dima (Pdl)
Dal blog di Cianciullo su Repubblica
"Sembra che il tema del cambiamento climatico sia passato di moda: i governi glissano sugli impegni e lo spazio sui media è notevolmente diminuito. Eppure il trend che si ricava dai rapporti degli enti più autorevoli continua a segnare allarme rosso. L’ultimo studio è quello della National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia oceanografica degli Stati Uniti. Ci dice che i ghiacciai della Groenlandia si stanno fondendo ad una velocità mai registrata dal 1958 (battendo dell’8 per cento il record precedente), e quelli del Mar Artico hanno subito una fortissima riduzione (la terza in ordine di importanza da quando il fenomeno viene misurato). Sempre la Noaa aggiunge che il 2010 è stato il secondo anno più caldo dalla metà dell’Ottocento.
“Il rapporto mette in chiaro una cosa: il riscaldamento globale non sta arrivando, è già qui – ha commentato Edward Markey, capogruppo democratico della commissione risorse naturali – e ora dobbiamo trovare il modo di bloccare questo riscaldamento e farlo in fetta”. Resta da vedere in che modo. Dopo il fallimento politico del vertice di Copenaghen e il profilo modesto della successiva riunione Onu a Cancun, il timone della battaglia contro il caos climatico è stato sostanzialmente affidato all’industria. Che per la verità se la sta cavando piuttosto bene: i fatturati della green economy crescono in tutto il mondo e la quota di energia pulita aumenta a un ritmo fino a ieri imprevisto. Il sistema produttivo sta cambiando in senso virtuoso, ma – a causa della crescita demografica e della crescita dei consumi pro capite – l’inquinamento continua ad aumentare mentre il pericolo climatico cresce. Per quanto tempo la politica potrà ancora restare alla finestra delegando ad altri una delle sue funzioni fondamentali, garantire la sicurezza dei cittadini?
Parole già sentite, sempre le stesse. Non hanno neanche l'accortezza di tentare di rinnovare i termini del copione, sono troppo sicuri della loro forza per preoccuparsi di dar conto al pubblico del loro operato. Il conto arriverà, come è arrivato per il nucleare.
Il ministro Romani prepara il raggiro
"Paolo Romani, dopo aver accontentato Confindustria sull'abbassamento degli incentivi statali all'energia fotovoltaica e aver tentato di accontentarla sull'energia nucleare (ma gli italiani si sono messi di mezzo con il referendum vinto dal sì), cerca ora di assecondare l'associazione degli industriali sul carbone.
E lo fa con una scorciatoia delle sue: durante l'ultima assemblea dell'Unione Petrolifera italiana, infatti, Romani ha trovato una soluzione al problema della riconversione della centrale Enel a carbone di Porto Tolle. Centrale che, al momento, ha serissime difficoltà ad ottenere le autorizzazioni, oltre ad un paio di inchieste giudiziarie a carico proprio per questioni autorizzative.
Autorizzazioni facili - Romani, candidamente, su Porto Tolle ha detto: "Occorre dare al Ministero dello sviluppo economico le competenze autorizzative per gli impianti strategici riguardanti la sicurezza energetica. E' importante che il Paese si doti di un sistema di decisioni che tenga conto della strategicita' di alcuni insediamenti", facendo esplicito riferimento alla centrale gestita dall'Enel.
In questo modo, in pratica, il ministro dello Sviluppo economico tenta di fare ciò che ha già fatto per il nucleare: togliere di mezzo le pastoie delle autorizzazioni ambientali, gestite dal Minsitero dell'Ambiente tramite i servizi Via e Aia, e inaugurare l'epoca dell'autorizzazione facile.
Confindustria chiama, Romani risponde - In merito alle lungaggini autorizzative di Porto Tolle, una decina di giorni fa, si era pronunciata la presidente di Condundustria, Emma Marcegaglia: "Porto Tolle è un investimento importante che può dare lavoro a molte persone e a molte imprese. Incredibile che si blocchi davanti all'ennesimo ricorso". Romani ha trovato la soluzione.
Il celeberrimo sociologo intervistato dal Foglio
"Professor Beck, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima?
Come tutti, ho pensato al popolo giapponese, a questo concatenamento di catastrofi senza precedenti: la terra che trema in modo mostruoso, lo tsunami e poi l’incidente nucleare… Poi ho pensato alle conferenze che ho tenuto in Giappone alla fine dell’anno scorso. Parlavo della società del rischio, in particolare nucleare, e confesso di essere stato sorpreso dalla reazione degli ascoltatori: trovavano che le mie tesi fossero “intellettualmente stimolanti”, ma non mi hanno preso davvero sul serio.
Perché?
Perché i giapponesi erano sicuri di sé, perché il loro ammodernamento e sviluppo sono avvenuti all’europea, a partire dalla metà del XIX secolo: la società giapponese si è individualizzata e liberata delle sue tradizioni, ha costruito uno stato previdenziale e le istituzioni incaricate di individuare i rischi e controllarli; i tecnici e le tecnologie locali sono tra le migliori al mondo. In virtù della loro perfezione tecnica e delle loro competenze, i giapponesi credevano di essersi liberati dal rischio della catastrofe nucleare, nonostante la fragilità fisica della loro isola. Al museo di Hiroshima c’è una cesura molto netta tra la bomba che ha devastato la città nel 1945 e il nucleare civile, che in Giappone non è mai stato contestato. Fino alla catastrofe, nel paese non esisteva una vera opposizione al nucleare. I giapponesi credevano al mito della sicurezza della razionalità tecnica: credevano di essere infallibili. Non si percepivano come una società del rischio, a differenza di numerosi altri paesi asiatici, in primo luogo la Corea del sud: nel corso di 15 o 20 anni, questi paesi hanno conosciuto una “compressed modernisation”, uno sviluppo supersonico che non è stato accompagnato da istituzioni in grado di gestire i rischi nati da questa modernizzazione ultrarapida.
In “La società del rischio”, lei scrive che “la società industriale produce sistematicamente condizioni che la minacciano e che mettono a repentaglio la sua stessa esistenza, potenziando e sfruttando economicamente i rischi”. Secondo lei l’incidente di Fukushima è un caso da manuale dei disastri che possono nascere dalle società del rischio?
Fukushima va oltre, temo: questa catastrofe potrebbe diventare il simbolo delle società del rischio globalizzato. Quando ho scritto “La società del rischio”, nel 1986, prima dell’incidente di Chernobyl’, il nostro orizzonte era ancora in larga misura nazionale. Parlavo della scomparsa della Foresta Nera, dei pesticidi nell’agricoltura tedesca, dell’inquinamento dei fiumi, anche se già all’epoca l’utilizzo intensivo di concimi nelle risiere in Asia aveva conseguenze nefaste anche da noi… Oggi, come sappiamo tutti, i rischi sono globalizzati, le frontiere sono scomparse, le sfide hanno raggiunto tutta l’umanità, come ad esempio i mutamenti climatici. L’incidente di Fukushima è avvenuto sotto gli occhi sconvolti del mondo intero. Abbiamo constatato tutti in diretta che i giapponesi avevano perso il controllo delle centrali. Si tratta di un momento cosmopolita che opera come una rivoluzione, con conseguenze immense per l’energia nucleare, l’energia in generale, la “sicurezza”, lo stato, la tecnica e la tecnologia. Inizia una nuova era.
Quale?
Dopo l’incidente, tutto è possibile! Credo che questa catastrofe faccia nascere una nuova nozione di rischi: i rischi legati al nucleare, che sono giganteschi, mentre dei rischi normali le società moderne hanno imparato a occuparsi. Hanno elaborato strumenti, istituzioni, meccanismi di garanzia che da due secoli a questa parte accompagnano il “progresso”: è una delle componenti del contratto sociale moderno. Con Fukushima, si precipita in una nuova dimensione. Nessuna istituzione umana è adatta a rispondere a una sfida di queste dimensioni. Le stime dei danni parlano di 235 miliardi di dollari! La radioattività può durare migliaia d’anni! Tutti i vicini del Giappone sono preoccupati, la zona d’evacuazione intorno alla centrale ormai ha raggiunto i 30 chilometri, una regione immensa per un paese di superficie e densità come quelle giapponesi. Questa catastrofe non ha frontiere, né geografiche, né sociali, né economiche, né politiche, né temporali. Niente può controbilanciarli o cancellarli. Dà un’immagine apocalittica della nostra modernità, le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare.
A cosa si può paragonare Fukushima?
Agli attentati dell’11 settembre 2001 e alla crisi finanziaria del 2008. Fratture storiche, avvenimenti complessi, senza confini e con una copertura mediatica universale, difficili da imputare a chicchessia, sia in termini di casualità, sia quanto a negligenze o responsabilità. Questi tre avvenimenti, molto ravvicinati sulla scala della Storia, dimostrano che il lato oscuro del progresso determina sempre più le controversie sociali su scala mondiale.
Anche i mutamenti climatici?
Sì, anche se sono ancora soggetti a interpretazioni diverse. I loro rischi sono ancora spesso invisibili, più diffusi dell’incidente di Fukushima o degli attacchi alle Torri gemelle di Manhattan, anche se sin d’oggi si fanno sentire, più o meno direttamente.
Quali saranno le conseguenze di Fukushima per il Giappone?
I giapponesi dovranno rivedere completamente la loro politica energetica, puntare su nuove fonti d’energia. Sarebbe un errore per il Giappone continuare a investire nel nucleare. Il Giappone si impegnerà nelle energie alternative; ne ha i mezzi tecnici e scientifici.
Ma come esattamente? Nel caso del Giappone, il solare e l’eolico non potranno mai dargli energia sufficiente nei prossimi anni…
In primo luogo, i giapponesi punteranno a risparmiare energia. Hanno ottenuto ottimi risultati in questo settore a seguito degli shock petroliferi degli anni Settanta: il consumo energetico è stabile rispetto agli anni Sessanta. Metteranno a punto anche nuove tecnologie. Detto questo, è vero che il loro problema principale è la produzione di energia. Dovranno certamente importarne dai vicini.
Da altri paesi asiatici? Dalla Cina? E’ realistico, da un punto di vista politico?
Forse non subito. Tutti gli stati sono ancora molto attaccati alla propria sovranità energetica…
Sì, è addirittura un dogma per gli stati moderni.
E’ vero, ma le cose in futuro dovranno cambiare. Le questioni energetiche dovranno essere discusse a livello mondiale. Penso per esempio al progetto Desertec: è stato lanciato da grandissimi gruppi tedeschi nel 2009 e mira, grazie a mega-centrali solari nel Sahara, ad approvvigionare di energia l’Europa. E’ molto promettente, per ragioni economiche ma anche politiche: con questo tipo di progetti ci si incammina progressivamente verso una gestione mondiale dell’energia.
Rimaniamo in Asia e in Giappone, se non le spiace.
Il grande pericolo per questa regione è che la Cina produca elettricità con nuove centrali a carbone, dopo la catastrofe di Fukushima. Queste nuove emissioni di Co2 sarebbero drammatiche per la regione. A causa dei venti, la Corea del sud già soffre molto l’inquinamento delle centrali cinesi. Quanto al Giappone, come già altri paesi, dovrà trovare un nuovo mix di energie per bilanciare l’abbandono progressivo e simultaneo, per ragioni ambientali e di sicurezza, del nucleare e del carbone. E’ una sfida colossale!
Secondo lei quindi il nucleare non ha futuro? Anche le nuove centrali EPR, la cui sicurezza pare sia ancora maggiore rispetto a quelle classiche?
Sì, penso che si tratti di una tecnologia obsoleta. Anche se la sicurezza è migliorata, nessuna centrale sarà mai infallibile. Come dimostra Fukushima, i rischi sono troppo grandi: peggio, sono più grandi di noi. Quindi è meglio non tentare il diavolo. D’altronde, non posso credere che un imprenditore, in cerca di quote di mercato e di credibilità, possa seriamente impegnare miliardi di euro nel nucleare. Sarebbe controproducente. Meglio sarà per lui investire nelle energie rinnovabili, le energie del futuro.
Sì, ma gli stati seguono una logica diversa. Sono loro i primi a promuovere il nucleare e a fare gara a presentare i loro progetti all’Aiea. Prima di Fukushima, erano in 60 a volersi dotare di impianti nucleari civili.
Sì, per ragioni di sovranità. La Francia, ad esempio, che ha puntato sul nucleare civile e militare per mantenere la propria indipendenza e il proprio “rango”. Personalmente, non faccio differenza tra nucleare civile e militare. E’ ancora più pericoloso per gli stati falliti o autoritari come il Pakistan. O per l’Iran, se il regime raggiunge i suoi fini. Nelle democrazie, anche la pressione dell’opinione pubblica sarà importante. Nei vari paesi, essa ormai è allertata e il messaggio dei tecnici e dei politici riuscirà sempre meno a raggiungere i suoi obiettivi: a forza di ripetere che le centrali sono sempre più sicure, in realtà non fanno altro che aumentare la paura dei cittadini. Tutti i paesi, i più ricchi così come i più poveri, devono oggi lavorare a un nuovo mix energetico.
Il baratro che separa gli stati più ricchi, i cui mezzi tecnologici sono infinitamente superiori, e i paesi poveri si farà ancora una volta più profondo?
Non necessariamente. Il Sahara, l’Africa, i paesi del sud a forte irraggiamento solare sono forse la nuova chiave di volta dell’approvvigionamento energetico mondiale.
Nell’attesa, il nucleare garantisce il 16 per cento della produzione di elettricità mondiale, con punte molto più alte in paesi come la Francia e il Giappone.
E’ una questione di volontà politica, di volontà di cambiare modello economico. Conoscendo i giapponesi, sono certo che prenderanno una direzione diversa e che per trovarla useranno tutti gli strumenti a loro disposizione.
In una recente intervista, Ray Kuzweil, il famoso inventore e teorico dell’high-tech americano, affermava che il sole tra 20 anni fornirà il 100 per cento del nostro fabbisogno energetico. Le sembra una prospettiva realista?
Perché no? Sottovalutiamo la creatività della modernità. Esistono sempre soluzioni tecniche. Parlavo prima del progetto Desertec. Uno dei grandi ostacoli sarà la trasmissione dell’energia del deserto ai paesi del nord. Ma sono certo che si riuscirà a costruire una nuova rete ad alta tensione. Quando l’uomo è alle strette, trova sempre qualche soluzione. E gli investimenti pubblici e privati per finanziarle.
La nostra civiltà – velocità, consumo, produttività, razionalità scientifica – è condannata? E’ la fine della religione del progresso? Possiamo seriamente prevedere un nuovo modello fondato sulla decrescita, come alcuni propongono?
Niente affatto! Non si tratta di tornare allo stato di natura o all’era pre moderna, quanto piuttosto di inventare una nuova modernità, che non sia più fondata sul nucleare e sulle energie fossili. Uscire dal nucleare non significa uscire dalla modernità! Almeno di certo non per me!
Ma il pianeta è in grado di fornire energia e nutrire sette, e presto, già nel 2050, nove miliardi di persone?
Le rispondo da sociologo: le ricchezze esistono, più che abbondanti, non c’è penuria, il problema è la condivisione, la distribuzione di queste ricchezze. Le disuguaglianze sono più grandi che mai e costituiscono ai miei occhi una bomba a orologeria. Niente di nuovo, mi dirà. Solo che, a differenza di oggi, le disuguaglianze non sono sempre state un problema politico. Gli schiavi, le donne, le minoranze di qualsiasi sorta, a tutte le latitudini, hanno sofferto delle disparità di trattamento sin dalla notte dei tempi. Queste disuguaglianze sono diventate problemi politici quando la nozione di uguaglianza è stata normata, quando abbiamo comunicato e lodato l’idea di uguaglianza. Oggi, tutto è sempre più normato. Di fatto, i rifugiati, il cui numero aumenta costantemente, trovano “giusto” venire a tentare la fortuna nei paesi del nord. Pensano di “averne diritto” anche loro.
E’ in parte la dialettica di colonizzatori e colonie?
Esatto. La metropoli vantava i meriti della colonizzazione, della sua civiltà, della sua democrazia liberale e illuminata, mentre gli indigeni hanno constatato soprattutto l’aumento della disuguaglianza, le differenze di trattamento e di stato tra colonizzatori e colonizzati; differenze che non corrispondevano in nulla ai discorsi e alle norme della metropoli. In quel momento sono cominciati i problemi.
La cancelliera Merkel ha ufficializzato che la Germania uscirà dall’atomo entro il 2022: la nevrosi del nucleare raggiunge nuovi vertici. Perché?
La Germania ha una cultura in cui la sicurezza sta al di sopra di ogni altro valore. Il maresciallo Goering al processo di Norimberga spiegava infatti che la democrazia e la libertà non erano valori della sua “Kultur”. Evidentemente, la Germania è cambiata, è diventata una democrazia moderna, ma continua a privilegiare la sicurezza. La Germania di Bismarck ha inventato lo stato assistenziale. La Repubblica democratica tedesca (Rdt) vantava la sicurezza del suo sistema economico e sociale a favore degli abitanti, di cui molti ancora oggi rimpiangono i benefici.
Questo non è legato anche ai disastri della Seconda guerra mondiale?
Certo: da allora abbiamo una cultura di previsione delle catastrofi, è un dato di fatto. Ed è legato probabilmente anche al Romanticismo, al nostro rapporto con la natura, a certi movimenti dell’inizio del XX secolo, come il Wandervögel. Il nazismo in realtà ha strumentalizzato questi sentimenti. Ma soprattutto, la società tedesca privilegia la sicurezza. Le cito due esempi contemporanei all’abbandono dell’atomo: il successo del libro di Thilo Sarrazin, che ritiene che la crescente multietnicità della società tedesca costituisca un pericolo – un bambino su quattro al di sotto dei cinque anni in Germania oggi ha doppia nazionalità; e la decisione della Germania di non votare la risoluzione 1973 dell’ONU sull’intervento armato in Libia. La Germania mette la sicurezza davanti a tutto!
Angela Merkel è simbolo di questa Germania, secondo lei?
La “banderuola dell’atomo”? Sì, sotto molti punti di vista. E’ molto pragmatica, anche prudente, e decide solo da ultima, quando tutti gli altri capi di governo si sono già pronunciati. Ed è una scienziata dell’ex Rdt. Il fatto che guidi una nazione sempre più vecchia per altro non è privo di importanza.
Non si rischia di passare da una società del rischio a una società dei tabù, della precauzione, in breve a una società della paura?
In effetti è un pericolo che incombe sulle nostre società e minaccia di paralizzarle. Questa paura, conseguenza della radicalizzazione delle società del rischio, ovvero della corsa sfrenata ai profitti e alla logica produttivista e finanziaria, molto spesso a scapito del buon senso, è già largamente strumentalizzata. In Europa, in particolare, con la crescita della nuova destra populista che avanza in tutti i paesi e a ogni tornata elettorale.
La catastrofe di Fukushima e l’impotenza del governo giapponese costituiranno un’ulteriore stangata per le democrazie sviluppate? Nutriranno il malessere e la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti eletti e delle istituzioni?
Certamente: il terrore viene dalla fascia produttiva della società. La popolazione giapponese ha appena preso coscienza del fatto che sono stati i garanti del diritto, dell’ordine, della razionalità e della democrazia a mettere in pericolo la nazione, costruendo centrali nucleari in una zona molto esposta ai rischi sismici. Fukushima dimostra che in caso di catastrofe di grande ampiezza – una delle manifestazioni della società del rischio globalizzato – è possibile che non vi siano istituzioni capaci di garantire l’ordine sociale e la struttura culturale e politica di un paese. D’altronde, la crescita dei rischi globali e il processo con cui i governi e i loro amministrati ne prendono coscienza costituiscono un altro pericolo per le democrazie, perché questi ultimi potrebbero essere tentati di trovare soluzioni politiche non democratiche. Prendiamo ad esempio il caso dei mutamenti climatici: le democrazie europee hanno difficoltà a trovare posizioni comuni proprio in virtù del loro carattere democratico. Non riusciamo a metterci d’accordo e per questo non siamo stati in grado di far sentire la nostra voce al vertice di Copenaghen a fine 2009. Uno stato come la Cina non si fa carico di questo genere di sottigliezze: il governo decide in modo autoritario, ad esempio la sua nuova politica ambientale, che è una delle più ambiziose del mondo, indipendentemente dalle resistenze regionali. Per affrontare i rischi globali della nostra modernità sono possibili due modelli contrapposti, e l’idea di maggiore efficacia potrebbe essere allettante. E’ un nuovo scoglio che attende le nostre democrazie.
Come possono le nostre democrazie affrontare questi nuovi rischi globali?
Per rispondere a questi problemi, che hanno una dimensione nuova, bisogna cambiare paradigma e avere più fantasia. Dobbiamo creare un cosmopolitismo moderno. E’ fondamentale! Di fronte ai rischi globali – il cambiamento del clima, le questioni migratorie, le valute, il sistema finanziario – lo stato nazione non dispone né delle dimensioni né dei mezzi per trovare le soluzioni. Se non collaboriamo, scompariremo! Oggi nel mondo convivono due tendenze contrapposte: la ri-nazionalizzazione dei problemi da una parte, e dall’altra la crescita di una nuova governance mondiale, ancora in fase embrionale, incarnata dal G8 e soprattutto dal G20, congressi di Vienna non ancora istituzionalizzati… Di certo, prossimamente vedranno la luce nuove istituzioni transnazionali.
Lei ha parlato anche di una nuova governance mondiale dell’energia.
Sì, l’energia è tipicamente un campo dove solo la cooperazione internazionale permetterà di risolvere i rischi globali. E’ indispensabile una forma di collaborazione tra stati ma anche con le imprese multinazionali, giganti privati dell’energia che sempre più svolgono un ruolo cruciale e dispongono di mezzi ad esso commisurati: Siemens, per esempio, che è stata tra i grandi promotori del progetto Desertec.
Crede davvero a questo neo-cosmopolitismo kantiano?
Non abbiamo scelta: o riusciamo a collaborare e a trovare soluzioni frutto di quella collaborazione, oppure affonderemo in un mondo segnato dall’impronta di Carl Schmitt, un mondo di soluzioni semplici che, a seguito delle crisi globali che ci insidiano, sarà diviso tra stati autoritari fondati su basi etniche e strutture di dominazione forti.
di Oliver Guez
Adnkronos:
"Aumentano le emissioni di anidride carbonica nell’aria; nel 2010 è stato raggiunto un livello record che supera del 5% il picco massimo raggiunto nel 2008. A certificarlo è l’Agenzia internazionale per l’energia che registra una inversione di tendenza legata alla ripresa dei consumi post crisi economica."
Stabilito un interessantissimo precedente nel diritto internazionale: per la prima volta un paese la cui sopravvivenza è direttamente minacciata dal cambiamento climatico ha intrapreso un’azione legale contro l’inquinamento di una nazione dall’altra parte del mondo
Da Rinnovabili.it
"Gli Stati Federati di Micronesia (FSM), una nazione insulare sparsa per il Pacifico settentrionale, si sono già trovati costretti ad affrontare le maree del cambiamento climatico, che hanno divorato le coste e lasciato la sicurezza alimentare e l’approvvigionamento idrico nel caos. Quindi quando hanno sentito che la Repubblica ceca aveva intenzione di estendere la licenza alla sua più grande centrale elettrica a carbone, l’impianto di Prunéřov, i leader della federazione hanno deciso che non sarebbero rimasti a guardare, pronti a portare la nazione europea in sede legale con l’accusa di mettere in serio pericolo la sopravvivenza dell’arcipelago. Per la prima volta nella storia dell’umanità una delle prime vittime del Climate Change si fa avanti e punta il dito contro l’inquinatore, nonostante a dividerli ci siano oltre 11mila km. La storia in realtà comincia nel gennaio del 2010 quando la Micronesia era intervenuta nell’ampliamento dello stabilimento ceco chiedendo una Valutazione d’Impatto Ambientale Transfrontaliero in considerazione dell’incidenza del progetto sull’ambiente; la centrale di Prunéřov con i suoi 1.490 MW di potenza produce emissioni 40 volte superiori a tutte quelle emesse dall’intero arcipelago. La richiesta era una prima assoluta dal momento che la Valutazione d’Impatto Ambientale Transfrontaliero è stato uno strumento giuridico precedentemente utilizzato solo dagli Stati confinanti.
Il governo di Praga ha finito per concedere la propria approvazione alla centrale prolungando la vita dello stabilimento fino all’anno 2035 (la centrale si sarebbe dovuta chiudere nel 2020), ma ha concesso alla Federazione lo status di “paese colpito” e il Ministero dell’Ambiente ha richiesto a CEZ, la società di servizi statali, di compensare 5 milioni di tonnellate di CO2 nel tentativo di mitigare l’impatto ambientale del progetto. La Micronesia ha presentato in questi giorni il documento base dell’azione legale internazionale, avanzata in collaborazione con Greenpeace e con l’Associazione Environmental Law Service, nella speranza di incoraggiare altre nazioni a prendere un atteggiamento più proattivo. L’occasione, non a caso è stata quella della “Conferenza delle nazioni insulari minacciate dai cambiamenti climatici” tenutasi a New York e apre ufficialmente un nuovo fronte nel diritto internazionale e nei rapporti diplomatici tra le nazioni stabilendo a tutti gli effetti un precedente. “Questo passo avanti – ha fatto sapere il ministro della Giustizia della Micronesia, Maketo Robert – mostra che i paesi minacciati come il nostro hanno ormai il sostegno del diritto internazionale, per pesare in modo più efficace sulle scelte energetiche”.
Tradotto in italiano da Comedonchisciotte.org / Di J. Larsen http://www.earth-policy.org
Il cancro è ora la principale causa di morte in Cina. I dati del Ministero della Salute cinese riporta che le morti per tumori sono quasi un quarto del totale dei decessi in tutto il paese. Mentre nei paesi in via di industrializzazione sono comuni le piaghe della povertà - malattie infettive e alta mortalità infantile – in questo caso siamo di fronte a patologie associate ai paesi più ricchi, come le malattie del cuore, gli infarti e il cancro.
Anche se ci si aspetterebbe che tutto ciò avvenga nella città più ricche della Cina, dove le biciclette sono state rottamate per le auto e il consumo di carne è in aumento, invece vale anche per le aree rurali. Infatti, gli studi dalle zone di campagna rivelano un’epidemia di “paesi dei tumori” collegati all’inquinamento di alcuni dei settori industriali che danno la spinta all’esplosiva economia cinese. Ma, nel porre la crescita economica al di sopra di qualsiasi altra cosa, la Cina sta sacrificando la salute della sua gente, mettendo a rischio la sua prosperità nel futuro.
Il cancro ai polmoni è la più comune patologia tumorale in Cina. Le morti per questa malattia spesso fatale sono cresciute quasi di cinque volte rispetto agli anni ’70. Nelle tentacolari città cinesi, come Shanghai e Pechino, dove il particolato nell’aria è spesso quattro volte più alto che a New York, circa il 30 per cento delle morti per cancro derivano dal tumore ai polmoni (Vedere i dati.)
L’aria inquinata non è associata solamente con varie patologie tumorali, ma anche alle malattie del cuore, all’infarto e alle malattie dell’apparato respiratorio, con oltre l’80 per cento delle morti nella aree agricole. In base ai dati del Centro Cinese per il Controllo delle Malattie e la Prevenzione, l’utilizzo del carbone è responsabile del 70 per cento delle emissioni di fuliggine che oscurano il sole in gran parte del paese, dell’85 per cento di quelle di biossido di zolfo, che provoca le piogge acide e lo smog, e il 67 per cento di quelle di monossido di azoto, un precursore del pericoloso livello dell’ozono nell’atmosfera. L’utilizzo del carbone è responsabile anche delle maggiori emissioni di cancerogeni e di mercurio, una potente neurotossina. Le ceneri del carbone, che contengono materiali radioattivi e metalli pesanti tra cui il cromo, l’arsenico, il piombo, il cadmio e il mercurio, sono la principale fonte dei rifiuti solidi industriali. Le ceneri tossiche, che non vengono più usate dagli impianti o ritrasformate, vengono stipate nei depositi, da dove possono essere portate via dalle correnti d’aria o percolare i contaminanti nelle falde acquifere.
L’inquinamento da carbone combinato alle emissioni delle fiorenti industrie cinese e le rottamazioni del numero sempre più alto di veicoli sono già sufficienti per ostacolare il respiro e mettere a repentaglio la salute. Ma ciò non impedisce alla metà degli uomini cinesi di fumare. Il fumo è molto meno comune tra le donne: meno del 3 per cento si accende una sigaretta. Ma quasi il 10 per cento del milione di cinesi che muoiono ogni anno per malattie collegate al fumo sono esposti al fumo passivo, ma non sono fumatori.
Nelle zone rurali, i cancri al fegato, ai polmoni e allo stomaco raggiungono ciascuno quasi il 20 per cento dei decessi riferiti alle patologie tumorali. Il cancro al fegato ha una possibilità tre volte maggiore di uccidere un agricoltore cinese rispetto a un cittadino del resto del mondo; per quanto riguarda il tumore allo stomaco, i cinesi che vivono in campagna hanno il doppio della probabilità di contrarlo rispetto a qualsiasi altro terrestre. Questi tumori sono provocati dalle acque inquinate dai prodotti chimici e dagli scarichi, insieme ad altri contaminanti ambientali.
Mentre le industrie, gli stabilimenti industriali e le miniere scaricano senza sosta gli inquinanti, i fiumi e i laghi stanno prendendo delle colorazioni malaticce. Anche le risorse acquifere sotterranee sono state contaminate. I dati del governo indicano che metà dei fiumi cinesi e più di tre quarti dei laghi sono troppo inquinati per poter utilizzare l’acqua per l’alimentazione, anche dopo i trattamenti. Tuttavia, rimangono la principale fonte di acqua per molte persone.
Sono stati individuati più di 450 “villaggi dei tumori” negli anni recenti, secondo i dati di un analisi condotta dal geografo Lee Liu, pubblicata nel 2010 sulla rivista Environment. Queste comunità – dove un insolito numero di persone sono state colpite dalle stesse patologie tumorali – tendono ad ammassarsi nelle aree più povere lungo corsi d’acqua inquinati o lungo i canali di scarico delle zone industriali. Anche se la gran parte dell’iniziale sviluppo industriale cinese è avvenuto lungo la costa, ultimamente le industrie vengono ubicate dove il lavoro costa meno e la sorveglianza ambientale è meno accurata, spingendo la cosiddetta “cintura del cancro” verso l’interno.
Per i villaggi un tempo largamente autosufficienti, l’avvelenamento dell’acqua e del suolo è devastante. I ragazzi e le persone in forze spesso vanno a cercarsi da vivere altrove. I troppo vecchi, i troppo poveri e i troppo ammalati restano, lottando per lavorare la terra avvelenata.
Liu ha notato che in alcuni casi estremi, come nel villaggio di Huangmengying nella provincia di Henan, “il tasso di morte è più alto di quello delle nascite e sta aumentando rapidamente” e non a causa dell’invecchiamento della popolazione. In questo villaggio, che riceve l’acqua annerita da un affluente del famigerato fiume Huai, circa l’80 per cento dei giovani del villaggio sono malati cronici. Persino a un bambino di un anno gli è stato diagnosticato un cancro. Circa la metà dei decessi tra il 1994 e il 2004 sono stati causati da tumori al fegato, al retto e allo stomaco. I dati più recenti non sono ancora disponibili perché il dirigente governativo che rese i dati pubblici fu accusato di “rivelazione del segreto di stato”, fu licenziato dal suo posto di segretario del Partito del villaggio e ora non vuole parlarne, in base al resoconto del Global Times.
A causa del lasso di tempo che intercorre la diagnosi e la morte, oltre alla mancanza di prevenzione per molte delle persone povere che vivono nelle zone più inquinate, l’intensità dell’epidemia tumorale in Cina potrebbe anche essere più alta di quanto finora immaginato. E non tutto l’inquinamento ambientale è endogeno. La contaminazione riguarda sia la geografia - le tossine nei prodotti e nei raccolti vengono veicolate dal flusso commerciale o sono letteralmente trasportate dalle correnti al di là degli oceani — che le nuove generazioni.
La gioventù cinese, il futuro del paese, è a rischio. Negli ultimi anni i tassi di anormalità infantile sono incrementati rapidamente nelle più grandi città e nelle campagne. I funzionari della pianificazione familiare cinese collegano questa “crescita allarmante” alla contaminazione ambientale. Le miniere di carbone e le aree per la sua trasformazione nella provincia di Shanxi sono il luogo dove il tasso di anormalità infantile è più alto al mondo: più dell’8,4 per cento. Del milione di neonati affetti ogni anno in Cina, un 20 o 30 per cento può essere trattata, ma il 40 per cento avrà invalidità permanenti. Il resto muore poco dopo la nascita.
Negli ultimi anni, migliaia di bambini che vivono nei pressi delle miniere di piombo, delle fonderie o degli impianti per la produzione delle batterie sono stati avvelenati. Mortale se assunto in gran quantità, il piombo nel sangue è comunque considerato dannoso in qualsiasi concentrazione. L’esposizione a questo metallo può ostacolare lo sviluppo del sistema nervoso e l’apprendimento, il blocco della crescita e un calo del QI. Ci sono storie toccanti sui bambinin che perdono la capacità di andare a scuola o che non riescono a stare in buona salute a causa dell’esposizione a alti livelli di contaminazione da piombo.
Per il paese che ha imposto un figlio per famiglia, non è strano assistere a sempre più frequenti “incidenti di massa” (il termine del governo per le proteste) provocati dalle ricadute sulla salute dell’inquinamento. In alcuni casi, l’attività di industrie irresponsabili è cessata dopo le proteste; in altre, il governo ha traslocato intere comunità per consentire agli inquinatori di continuare nelle loro operazioni. E in molte circostanze, la contaminazione prosegue con la stessa intensità.
È facile puntare il dito contro le industrie senza scrupoli e i funzionari governativi che guardano da un’altra parte, ma una qualche responsabilità per l’ambiente malsano della Cina proviene dal di fuori dei confini. I rifiuti sono spesso caricati in container oltre oceano e scaricati direttamente in Cina. Insidiosamente, i consumatori occidentali si tuffano sui componenti artificialmente economici “made in China” e hanno poi esternalizzato l’inquinamento in direzione della fabbrica planetaria.
Ancora quest’anno in concomitanza con la pubblicazione del piano quinquennale cinese, il New York Times ha citato il proclama del Primo Ministro, Wen Jiabao: “Non dobbiamo più pregiudicare l’ambiente per il bene della crescita e per i lanci scriteriati sul mercato.” E mentre la retorica dei funzionari riconosce l’importanza della preservazione dell’ambiente e della salute della sua gente, il governo cinese ha ancora molta strada da fare per aumentare la trasparenza e il rafforzamento dei controlli ambientali esistenti, per non menzionare il rafforzamento della protezione. Se così non fosse, il fardello tossico che schiaccia il paese minaccia di interrompere o di far arretrare i cospicui miglioramenti ottenuti nella tutela della salute negli ultimi 60 anni, che hanno portato l’aspettativa di vita da 45 a 74 anni e ha abbattuto la mortalità infantile da 122 morti per 1.000 nascite a meno di 20. I profitti economici possano andare perduti se la produttività declina e se si dovranno pagare conti salati per la salute. In ultima analisi, un paese malato può prosperare solo a breve termine.
Principali Cause di Morte nella Cina urbana e rurale, 2009
Morti per 100.000 abitanti.
Tumori maligni - Urbana 167.6 Rurale 159.1
Patologie cardiache - Urbana 128.8 Rurale 112.9
Patologie cerebrovascolari - Urbana 126.3 Rurale 152.1
Patologie dell’apparato respiratorio - Urbana 65.4 Rurale 98.2
Cause esterne di ferimento o avvelenamento - Urbana 34.7 Rurale 54.1
Patologie endocrine, nutrizionali e metaboliche - Urbana 20.3 Rurale 11.3
Patologie dell’apparato digerente - Urbana 16.6 Rurale 14.6
Altre patologie - Urbana 10.7 Rurale 7.7
Patologie dell’apparato urogenitale - Urbana 7.3 Rurale 7.2
Patologie del sistema nervoso - Urbana 6.9 Rurale 5.1
Malattie infettive (non includono la tubercolosi respiratoria) - Urbana 4.4 Rurale 5.0
Malattie non diagnosticate - Urbana 4.1 Rurale 2.8
Disordini mentali - Urbana 3.6 Rurale 3.1
Malformazioni congenite, deformazioni e anormalità cromosomiche - Urbana 2.3 Rurale 2.2
Tubercolosi respiratoria - Urbana 1.9 Rurale 2.3
Patologie del sistema muscolo-scheletrico e del tessuto connettivo - Urbana 1.8 Rurale 1.3
Patologie del sangue, degli organi che lo formano e immunodeficienza - Urbana 1.6 Rurale 1.0
Malattie perinatali - Urbana 1.5 Rurale 2.5
Malattie portate dai parassiti - Urbana 0.5 Rurale 0.1
Gravidanza, parto e puerperio - Urbana 0.1 Rurale 0.2
Fonte: Earth Policy Institute from National Bureau of Statistics of China
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Fonte: http://www.earth-policy.org/plan_b_updates/2011/update96
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