No al carbone Alto Lazio

Visualizzazione post con etichetta Emergenza Ecologica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Emergenza Ecologica. Mostra tutti i post

8 luglio 2011

Il cambiamento climatico blocca centrale a carbone in Israele

Da Greenreport.it

I lavoratori di Israele elettrica Corp hanno avvertito che intere città potrebbero essere lasciate senza elettricità. E' da giorni che il sistema di filtraggio della centrale di Hadera è in crisi e stenta a smaltire le grandi quantità di meduse che vengono risucchiate dalle sue pompe. Un operaio ha spiegato che «quando le meduse arrivano a frotte, bloccano il nostro sistema di raffreddamento e si diffondono e diventano come gel e questa gelatina blocca il condensatore e interrompe la condensa del vapore. Ed eventi gravi potrebbero fermare la produzione di energia elettrica della centrale».
Secondo gli scienziati israeliani, l'innalzamento delle temperature globali è il responsabile dell'esplosione demografica di queste meduse; "curioso" che sia il carbone combusto nelle centrali, il principale responsabile mondiale dell'innalzamento delle temperature.

Leggi tutto il post...

4 luglio 2011

Inquinamento, riscaldamento climatico e masse di profughi

"Arrivano gli sfollati climatici: abitanti delle isole , che a causa del surriscaldamento della terra, annegano nell’oceano", da Paperblog

Arrivano gli sfollati climatici. Sono per ora quelli di Lohacara nel Golfo del Bengala, di Newtok in Alaska o di Carteret in Papua Nuova Guinea, costretti ad arrendersi davanti a un oceano che sale senza tregua, inquinando acqua da bere e campi da coltivare , fino a sommergere tutto. Case, scuole, chiese.
Sono un piccolo esercito, ma il numero è destinato ad aumentare. In Bangladesh potrebbero superare i 20 milioni se il 18% della zona costiera finirà sott’acqua , come prevedono i climatologi. Destino più amaro per le isole, che non avranno più nessuna terra da chiamare patria. “Se non verranno prese misure adeguate , entro qualche decennio varie Isole-Stato dell’Oceano Pacifico finiranno sotto il livello del mare”Avverte Michael Gerrard , direttore del Center for Climate Change Law della Columbia University.

A New York un mese fa circa si sono riuniti 250 scienziati ed esperti legali per cercare risposte a delle domande rivolte dagli abitanti delle Isole Marshall, adagiate a pelo d’acqua tra Australia e Hawaii. La paura è tanta. Il diritto internazionale non dà risposte. E anche a New York gli esperti so sino divisi su possibili soluzioni.

L’unico dato unanime è “L’innalzamento del livello del mare , dovuto all’espansione delle acque surriscaldate e allo scioglimento dei ghiacci polari e continentali . è cresciuto in modo costante dal 1990 a oggi : attualmente , secondo misurazioni satellitari , è di circa 3 mm all’anno” ha ricordato Mary Elena-Carr , direttore associato del Columbia Climate Center “Un fenomeno non uniforme in tutto il pianeta : in alcune regioni , come l’area occidentale del Pacifico o quella sudorientale dell’Oceano Indiano , l’innalzamento è tre volte superiore alla media , principalmente a causa della maggiore espansione termica e dei venti. Considerando anche il probabile parziale scioglimento dei ghiacci in Groenlandia e nell’Antartico Occidentale , da qui al 2100 il livello del mare potrebbe salire dai 75 ai 190 cm”. E nei secoli anche svariati metri.

Un incubo che accumuna gli arcipelaghi meravigliosi dell’Oceania e i paradisi a cinque stelle della Maldive , lo stato più basso al mondo : 1220 isole e atolli , l’80% a meno di un metro sopra il mare , dove tre anni fa fu creato un fondo per l’acquisto di una nuova patria - tra le opzioni : un territorio in Sri Lanka , India o Australia . dove ricollocare i 305.000 abitanti (fondo poi eroso da crisi e tagli di bilancio).

C’è ora una corsa ai ripari. C’è chi si affida ancora i sacchi di sabbia accatastati sulla riva per fermare la marea , come capita di vedere alle Maldive fuori stagione , e chi sceglie opere d’ingegneria sempre più spericolata : strade rialzate , importazioni massicce di sabbia , barriere vegetali sulla costa o muri di cemento lunghi vari Km in mare – come la barriera costruita a difesa di Majuro , capitale della Marshall – per fermare l’impatto devastante delle onde e delle maree. Si pensa persino di creare isole artificiali , poco più di piattaforme sul mare , che garantiscono la presenza degli abitanti , per poter continuare a chiamarsi Stato , con una bandiera e i diritti economici che ne conseguono , per esempio la vendita dei diritti di pesca al tonno , una delle entrate più importanti del Pacifico.

Molte isole-Stato pensano a vie legali per difendere i loro diritti. Per esempio una mappatura che difendi i confini in modo permanente , per far sì che le acque territoriali e la Zona economica non si restringano , o scompaiano. Le frontiere economiche potrebbero essere registrate nelle opportune sedi internazionali , sia all’Onu sia nei trattati bilaterali, come quello concluso tra la Francia e l’isola di Tuvalu ( in Polinesia) per stabilire i limiti delle rispettive rivendicazioni marittime.

Intanto partono le prime azioni legali. La Federazione della Micronesia ha fatto causa alla repubblica Ceca , distante 11000 km, perché colpevole di coler tener acceso il maxi impianto a carbone di Prunnerov-2 “Da solo produce emissioni 40 volte superiori a quelle emesse da tutto il nostro arcipelago. Prolungarne l’attività mette a rischio la nostra sopravvivenza” sostiene la denuncia in cui la Micronesia ha chiesto una “Valutazione transnazionale degli impatti ambientali. Si prevedono class action davanti alla Corte internazionale di Giustizia ( poteri limitati) di queste isole-Stato contro i Grandi Inquinatori.

Majuro, l’atollo più grande delle Isole Marshall, ha perso 20% del suo territorio negli ultimi 15 anni e tra i suoi 67000 abitanti si registrano molti espatri negli Stati Uniti , con cui l’ex colonia ha un trattato di libero ingresso, soggiorno e lavoro. La Nuova Zelanda , da parte sua, ogni anno accoglie alcune decine di abitanti dell’isola di Kiribati . Popoli che rischiano di trasformarsi in migranti senza patria e diritti. Le convenzioni Onu non riconoscono la categoria dei “rifugiati ambientali” o “climatici” fra i destinatari di asilo o protezione umanitaria. Due giuristi australiani stanno promuovendo una Convenzione ad hoc , che impone l’obbligo di accoglienza ai Paesi dell’Onu.

Leggi tutto il post...

2 luglio 2011

I ghiacci si sciolgono, il riscaldamento globale è arrivato: agire entro il 2020 o catastrofe

Dal blog di Cianciullo su Repubblica
"Sembra che il tema del cambiamento climatico sia passato di moda: i governi glissano sugli impegni e lo spazio sui media è notevolmente diminuito. Eppure il trend che si ricava dai rapporti degli enti più autorevoli continua a segnare allarme rosso. L’ultimo studio è quello della National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia oceanografica degli Stati Uniti. Ci dice che i ghiacciai della Groenlandia si stanno fondendo ad una velocità mai registrata dal 1958 (battendo dell’8 per cento il record precedente), e quelli del Mar Artico hanno subito una fortissima riduzione (la terza in ordine di importanza da quando il fenomeno viene misurato). Sempre la Noaa aggiunge che il 2010 è stato il secondo anno più caldo dalla metà dell’Ottocento.
“Il rapporto mette in chiaro una cosa: il riscaldamento globale non sta arrivando, è già qui – ha commentato Edward Markey, capogruppo democratico della commissione risorse naturali – e ora dobbiamo trovare il modo di bloccare questo riscaldamento e farlo in fetta”. Resta da vedere in che modo. Dopo il fallimento politico del vertice di Copenaghen e il profilo modesto della successiva riunione Onu a Cancun, il timone della battaglia contro il caos climatico è stato sostanzialmente affidato all’industria. Che per la verità se la sta cavando piuttosto bene: i fatturati della green economy crescono in tutto il mondo e la quota di energia pulita aumenta a un ritmo fino a ieri imprevisto. Il sistema produttivo sta cambiando in senso virtuoso, ma – a causa della crescita demografica e della crescita dei consumi pro capite – l’inquinamento continua ad aumentare mentre il pericolo climatico cresce. Per quanto tempo la politica potrà ancora restare alla finestra delegando ad altri una delle sue funzioni fondamentali, garantire la sicurezza dei cittadini?

Leggi tutto il post...

25 giugno 2011

Le centrali di Civitavecchia nella classifica di Mare Monstrum 2011

Mare Monstrum 2011, il report annuale di Legambiente sullo stato di salute delle nostre coste, include tra le dieci peggiori minacce per l’immagine, la conservazione e l’integrità paesaggistica del mare italiano, le centrali elettriche, come quelle di Civitavecchia.

Nella lista:

  • scarichi fognari non depurati,
  • cementificazione selvaggia delle spiagge,
  • trivellazioni,
  • intenso traffico marittimo,
  • plastica in mare,
  • pesca illegale e spadare,
  • navi cariche di sostanze tossiche, affondate,
  • inquinamento industriale,
  • centrali termoelettriche

Leggi tutto il post...

1 giugno 2011

Ulrich Beck sul futuro della produzione energetica

Il celeberrimo sociologo intervistato dal Foglio
"Professor Beck, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima?
Come tutti, ho pensato al popolo giapponese, a questo concatenamento di catastrofi senza precedenti: la terra che trema in modo mostruoso, lo tsunami e poi l’incidente nucleare… Poi ho pensato alle conferenze che ho tenuto in Giappone alla fine dell’anno scorso. Parlavo della società del rischio, in particolare nucleare, e confesso di essere stato sorpreso dalla reazione degli ascoltatori: trovavano che le mie tesi fossero “intellettualmente stimolanti”, ma non mi hanno preso davvero sul serio.

Perché?

Perché i giapponesi erano sicuri di sé, perché il loro ammodernamento e sviluppo sono avvenuti all’europea, a partire dalla metà del XIX secolo: la società giapponese si è individualizzata e liberata delle sue tradizioni, ha costruito uno stato previdenziale e le istituzioni incaricate di individuare i rischi e controllarli; i tecnici e le tecnologie locali sono tra le migliori al mondo. In virtù della loro perfezione tecnica e delle loro competenze, i giapponesi credevano di essersi liberati dal rischio della catastrofe nucleare, nonostante la fragilità fisica della loro isola. Al museo di Hiroshima c’è una cesura molto netta tra la bomba che ha devastato la città nel 1945 e il nucleare civile, che in Giappone non è mai stato contestato. Fino alla catastrofe, nel paese non esisteva una vera opposizione al nucleare. I giapponesi credevano al mito della sicurezza della razionalità tecnica: credevano di essere infallibili. Non si percepivano come una società del rischio, a differenza di numerosi altri paesi asiatici, in primo luogo la Corea del sud: nel corso di 15 o 20 anni, questi paesi hanno conosciuto una “compressed modernisation”, uno sviluppo supersonico che non è stato accompagnato da istituzioni in grado di gestire i rischi nati da questa modernizzazione ultrarapida.

In “La società del rischio”, lei scrive che “la società industriale produce sistematicamente condizioni che la minacciano e che mettono a repentaglio la sua stessa esistenza, potenziando e sfruttando economicamente i rischi”. Secondo lei l’incidente di Fukushima è un caso da manuale dei disastri che possono nascere dalle società del rischio?
Fukushima va oltre, temo: questa catastrofe potrebbe diventare il simbolo delle società del rischio globalizzato. Quando ho scritto “La società del rischio”, nel 1986, prima dell’incidente di Chernobyl’, il nostro orizzonte era ancora in larga misura nazionale. Parlavo della scomparsa della Foresta Nera, dei pesticidi nell’agricoltura tedesca, dell’inquinamento dei fiumi, anche se già all’epoca l’utilizzo intensivo di concimi nelle risiere in Asia aveva conseguenze nefaste anche da noi… Oggi, come sappiamo tutti, i rischi sono globalizzati, le frontiere sono scomparse, le sfide hanno raggiunto tutta l’umanità, come ad esempio i mutamenti climatici. L’incidente di Fukushima è avvenuto sotto gli occhi sconvolti del mondo intero. Abbiamo constatato tutti in diretta che i giapponesi avevano perso il controllo delle centrali. Si tratta di un momento cosmopolita che opera come una rivoluzione, con conseguenze immense per l’energia nucleare, l’energia in generale, la “sicurezza”, lo stato, la tecnica e la tecnologia. Inizia una nuova era.

Quale?
Dopo l’incidente, tutto è possibile! Credo che questa catastrofe faccia nascere una nuova nozione di rischi: i rischi legati al nucleare, che sono giganteschi, mentre dei rischi normali le società moderne hanno imparato a occuparsi. Hanno elaborato strumenti, istituzioni, meccanismi di garanzia che da due secoli a questa parte accompagnano il “progresso”: è una delle componenti del contratto sociale moderno. Con Fukushima, si precipita in una nuova dimensione. Nessuna istituzione umana è adatta a rispondere a una sfida di queste dimensioni. Le stime dei danni parlano di 235 miliardi di dollari! La radioattività può durare migliaia d’anni! Tutti i vicini del Giappone sono preoccupati, la zona d’evacuazione intorno alla centrale ormai ha raggiunto i 30 chilometri, una regione immensa per un paese di superficie e densità come quelle giapponesi. Questa catastrofe non ha frontiere, né geografiche, né sociali, né economiche, né politiche, né temporali. Niente può controbilanciarli o cancellarli. Dà un’immagine apocalittica della nostra modernità, le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare.

A cosa si può paragonare Fukushima?
Agli attentati dell’11 settembre 2001 e alla crisi finanziaria del 2008. Fratture storiche, avvenimenti complessi, senza confini e con una copertura mediatica universale, difficili da imputare a chicchessia, sia in termini di casualità, sia quanto a negligenze o responsabilità. Questi tre avvenimenti, molto ravvicinati sulla scala della Storia, dimostrano che il lato oscuro del progresso determina sempre più le controversie sociali su scala mondiale.

Anche i mutamenti climatici?
Sì, anche se sono ancora soggetti a interpretazioni diverse. I loro rischi sono ancora spesso invisibili, più diffusi dell’incidente di Fukushima o degli attacchi alle Torri gemelle di Manhattan, anche se sin d’oggi si fanno sentire, più o meno direttamente.
Quali saranno le conseguenze di Fukushima per il Giappone?
I giapponesi dovranno rivedere completamente la loro politica energetica, puntare su nuove fonti d’energia. Sarebbe un errore per il Giappone continuare a investire nel nucleare. Il Giappone si impegnerà nelle energie alternative; ne ha i mezzi tecnici e scientifici.

Ma come esattamente? Nel caso del Giappone, il solare e l’eolico non potranno mai dargli energia sufficiente nei prossimi anni…

In primo luogo, i giapponesi punteranno a risparmiare energia. Hanno ottenuto ottimi risultati in questo settore a seguito degli shock petroliferi degli anni Settanta: il consumo energetico è stabile rispetto agli anni Sessanta. Metteranno a punto anche nuove tecnologie. Detto questo, è vero che il loro problema principale è la produzione di energia. Dovranno certamente importarne dai vicini.

Da altri paesi asiatici? Dalla Cina? E’ realistico, da un punto di vista politico?
Forse non subito. Tutti gli stati sono ancora molto attaccati alla propria sovranità energetica…
Sì, è addirittura un dogma per gli stati moderni.
E’ vero, ma le cose in futuro dovranno cambiare. Le questioni energetiche dovranno essere discusse a livello mondiale. Penso per esempio al progetto Desertec: è stato lanciato da grandissimi gruppi tedeschi nel 2009 e mira, grazie a mega-centrali solari nel Sahara, ad approvvigionare di energia l’Europa. E’ molto promettente, per ragioni economiche ma anche politiche: con questo tipo di progetti ci si incammina progressivamente verso una gestione mondiale dell’energia.

Rimaniamo in Asia e in Giappone, se non le spiace.
Il grande pericolo per questa regione è che la Cina produca elettricità con nuove centrali a carbone, dopo la catastrofe di Fukushima. Queste nuove emissioni di Co2 sarebbero drammatiche per la regione. A causa dei venti, la Corea del sud già soffre molto l’inquinamento delle centrali cinesi. Quanto al Giappone, come già altri paesi, dovrà trovare un nuovo mix di energie per bilanciare l’abbandono progressivo e simultaneo, per ragioni ambientali e di sicurezza, del nucleare e del carbone. E’ una sfida colossale!

Secondo lei quindi il nucleare non ha futuro? Anche le nuove centrali EPR, la cui sicurezza pare sia ancora maggiore rispetto a quelle classiche?
Sì, penso che si tratti di una tecnologia obsoleta. Anche se la sicurezza è migliorata, nessuna centrale sarà mai infallibile. Come dimostra Fukushima, i rischi sono troppo grandi: peggio, sono più grandi di noi. Quindi è meglio non tentare il diavolo. D’altronde, non posso credere che un imprenditore, in cerca di quote di mercato e di credibilità, possa seriamente impegnare miliardi di euro nel nucleare. Sarebbe controproducente. Meglio sarà per lui investire nelle energie rinnovabili, le energie del futuro.

Sì, ma gli stati seguono una logica diversa. Sono loro i primi a promuovere il nucleare e a fare gara a presentare i loro progetti all’Aiea. Prima di Fukushima, erano in 60 a volersi dotare di impianti nucleari civili.
Sì, per ragioni di sovranità. La Francia, ad esempio, che ha puntato sul nucleare civile e militare per mantenere la propria indipendenza e il proprio “rango”. Personalmente, non faccio differenza tra nucleare civile e militare. E’ ancora più pericoloso per gli stati falliti o autoritari come il Pakistan. O per l’Iran, se il regime raggiunge i suoi fini. Nelle democrazie, anche la pressione dell’opinione pubblica sarà importante. Nei vari paesi, essa ormai è allertata e il messaggio dei tecnici e dei politici riuscirà sempre meno a raggiungere i suoi obiettivi: a forza di ripetere che le centrali sono sempre più sicure, in realtà non fanno altro che aumentare la paura dei cittadini. Tutti i paesi, i più ricchi così come i più poveri, devono oggi lavorare a un nuovo mix energetico.

Il baratro che separa gli stati più ricchi, i cui mezzi tecnologici sono infinitamente superiori, e i paesi poveri si farà ancora una volta più profondo?
Non necessariamente. Il Sahara, l’Africa, i paesi del sud a forte irraggiamento solare sono forse la nuova chiave di volta dell’approvvigionamento energetico mondiale.
Nell’attesa, il nucleare garantisce il 16 per cento della produzione di elettricità mondiale, con punte molto più alte in paesi come la Francia e il Giappone.
E’ una questione di volontà politica, di volontà di cambiare modello economico. Conoscendo i giapponesi, sono certo che prenderanno una direzione diversa e che per trovarla useranno tutti gli strumenti a loro disposizione.

In una recente intervista, Ray Kuzweil, il famoso inventore e teorico dell’high-tech americano, affermava che il sole tra 20 anni fornirà il 100 per cento del nostro fabbisogno energetico. Le sembra una prospettiva realista?
Perché no? Sottovalutiamo la creatività della modernità. Esistono sempre soluzioni tecniche. Parlavo prima del progetto Desertec. Uno dei grandi ostacoli sarà la trasmissione dell’energia del deserto ai paesi del nord. Ma sono certo che si riuscirà a costruire una nuova rete ad alta tensione. Quando l’uomo è alle strette, trova sempre qualche soluzione. E gli investimenti pubblici e privati per finanziarle.

La nostra civiltà – velocità, consumo, produttività, razionalità scientifica – è condannata? E’ la fine della religione del progresso? Possiamo seriamente prevedere un nuovo modello fondato sulla decrescita, come alcuni propongono?
Niente affatto! Non si tratta di tornare allo stato di natura o all’era pre moderna, quanto piuttosto di inventare una nuova modernità, che non sia più fondata sul nucleare e sulle energie fossili. Uscire dal nucleare non significa uscire dalla modernità! Almeno di certo non per me!

Ma il pianeta è in grado di fornire energia e nutrire sette, e presto, già nel 2050, nove miliardi di persone?
Le rispondo da sociologo: le ricchezze esistono, più che abbondanti, non c’è penuria, il problema è la condivisione, la distribuzione di queste ricchezze. Le disuguaglianze sono più grandi che mai e costituiscono ai miei occhi una bomba a orologeria. Niente di nuovo, mi dirà. Solo che, a differenza di oggi, le disuguaglianze non sono sempre state un problema politico. Gli schiavi, le donne, le minoranze di qualsiasi sorta, a tutte le latitudini, hanno sofferto delle disparità di trattamento sin dalla notte dei tempi. Queste disuguaglianze sono diventate problemi politici quando la nozione di uguaglianza è stata normata, quando abbiamo comunicato e lodato l’idea di uguaglianza. Oggi, tutto è sempre più normato. Di fatto, i rifugiati, il cui numero aumenta costantemente, trovano “giusto” venire a tentare la fortuna nei paesi del nord. Pensano di “averne diritto” anche loro.

E’ in parte la dialettica di colonizzatori e colonie?
Esatto. La metropoli vantava i meriti della colonizzazione, della sua civiltà, della sua democrazia liberale e illuminata, mentre gli indigeni hanno constatato soprattutto l’aumento della disuguaglianza, le differenze di trattamento e di stato tra colonizzatori e colonizzati; differenze che non corrispondevano in nulla ai discorsi e alle norme della metropoli. In quel momento sono cominciati i problemi.

La cancelliera Merkel ha ufficializzato che la Germania uscirà dall’atomo entro il 2022: la nevrosi del nucleare raggiunge nuovi vertici. Perché?
La Germania ha una cultura in cui la sicurezza sta al di sopra di ogni altro valore. Il maresciallo Goering al processo di Norimberga spiegava infatti che la democrazia e la libertà non erano valori della sua “Kultur”. Evidentemente, la Germania è cambiata, è diventata una democrazia moderna, ma continua a privilegiare la sicurezza. La Germania di Bismarck ha inventato lo stato assistenziale. La Repubblica democratica tedesca (Rdt) vantava la sicurezza del suo sistema economico e sociale a favore degli abitanti, di cui molti ancora oggi rimpiangono i benefici.

Questo non è legato anche ai disastri della Seconda guerra mondiale?
Certo: da allora abbiamo una cultura di previsione delle catastrofi, è un dato di fatto. Ed è legato probabilmente anche al Romanticismo, al nostro rapporto con la natura, a certi movimenti dell’inizio del XX secolo, come il Wandervögel. Il nazismo in realtà ha strumentalizzato questi sentimenti. Ma soprattutto, la società tedesca privilegia la sicurezza. Le cito due esempi contemporanei all’abbandono dell’atomo: il successo del libro di Thilo Sarrazin, che ritiene che la crescente multietnicità della società tedesca costituisca un pericolo – un bambino su quattro al di sotto dei cinque anni in Germania oggi ha doppia nazionalità; e la decisione della Germania di non votare la risoluzione 1973 dell’ONU sull’intervento armato in Libia. La Germania mette la sicurezza davanti a tutto!

Angela Merkel è simbolo di questa Germania, secondo lei?
La “banderuola dell’atomo”? Sì, sotto molti punti di vista. E’ molto pragmatica, anche prudente, e decide solo da ultima, quando tutti gli altri capi di governo si sono già pronunciati. Ed è una scienziata dell’ex Rdt. Il fatto che guidi una nazione sempre più vecchia per altro non è privo di importanza.

Non si rischia di passare da una società del rischio a una società dei tabù, della precauzione, in breve a una società della paura?
In effetti è un pericolo che incombe sulle nostre società e minaccia di paralizzarle. Questa paura, conseguenza della radicalizzazione delle società del rischio, ovvero della corsa sfrenata ai profitti e alla logica produttivista e finanziaria, molto spesso a scapito del buon senso, è già largamente strumentalizzata. In Europa, in particolare, con la crescita della nuova destra populista che avanza in tutti i paesi e a ogni tornata elettorale.

La catastrofe di Fukushima e l’impotenza del governo giapponese costituiranno un’ulteriore stangata per le democrazie sviluppate? Nutriranno il malessere e la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti eletti e delle istituzioni?
Certamente: il terrore viene dalla fascia produttiva della società. La popolazione giapponese ha appena preso coscienza del fatto che sono stati i garanti del diritto, dell’ordine, della razionalità e della democrazia a mettere in pericolo la nazione, costruendo centrali nucleari in una zona molto esposta ai rischi sismici. Fukushima dimostra che in caso di catastrofe di grande ampiezza – una delle manifestazioni della società del rischio globalizzato – è possibile che non vi siano istituzioni capaci di garantire l’ordine sociale e la struttura culturale e politica di un paese. D’altronde, la crescita dei rischi globali e il processo con cui i governi e i loro amministrati ne prendono coscienza costituiscono un altro pericolo per le democrazie, perché questi ultimi potrebbero essere tentati di trovare soluzioni politiche non democratiche. Prendiamo ad esempio il caso dei mutamenti climatici: le democrazie europee hanno difficoltà a trovare posizioni comuni proprio in virtù del loro carattere democratico. Non riusciamo a metterci d’accordo e per questo non siamo stati in grado di far sentire la nostra voce al vertice di Copenaghen a fine 2009. Uno stato come la Cina non si fa carico di questo genere di sottigliezze: il governo decide in modo autoritario, ad esempio la sua nuova politica ambientale, che è una delle più ambiziose del mondo, indipendentemente dalle resistenze regionali. Per affrontare i rischi globali della nostra modernità sono possibili due modelli contrapposti, e l’idea di maggiore efficacia potrebbe essere allettante. E’ un nuovo scoglio che attende le nostre democrazie.

Come possono le nostre democrazie affrontare questi nuovi rischi globali?
Per rispondere a questi problemi, che hanno una dimensione nuova, bisogna cambiare paradigma e avere più fantasia. Dobbiamo creare un cosmopolitismo moderno. E’ fondamentale! Di fronte ai rischi globali – il cambiamento del clima, le questioni migratorie, le valute, il sistema finanziario – lo stato nazione non dispone né delle dimensioni né dei mezzi per trovare le soluzioni. Se non collaboriamo, scompariremo! Oggi nel mondo convivono due tendenze contrapposte: la ri-nazionalizzazione dei problemi da una parte, e dall’altra la crescita di una nuova governance mondiale, ancora in fase embrionale, incarnata dal G8 e soprattutto dal G20, congressi di Vienna non ancora istituzionalizzati… Di certo, prossimamente vedranno la luce nuove istituzioni transnazionali.

Lei ha parlato anche di una nuova governance mondiale dell’energia.
Sì, l’energia è tipicamente un campo dove solo la cooperazione internazionale permetterà di risolvere i rischi globali. E’ indispensabile una forma di collaborazione tra stati ma anche con le imprese multinazionali, giganti privati dell’energia che sempre più svolgono un ruolo cruciale e dispongono di mezzi ad esso commisurati: Siemens, per esempio, che è stata tra i grandi promotori del progetto Desertec.

Crede davvero a questo neo-cosmopolitismo kantiano?
Non abbiamo scelta: o riusciamo a collaborare e a trovare soluzioni frutto di quella collaborazione, oppure affonderemo in un mondo segnato dall’impronta di Carl Schmitt, un mondo di soluzioni semplici che, a seguito delle crisi globali che ci insidiano, sarà diviso tra stati autoritari fondati su basi etniche e strutture di dominazione forti.

di Oliver Guez

Leggi tutto il post...

31 maggio 2011

Nuovo triste record per l'ecosistema terrestre. Carbone tra i principali responsabili

Adnkronos:
"Aumentano le emissioni di anidride carbonica nell’aria; nel 2010 è stato raggiunto un livello record che supera del 5% il picco massimo raggiunto nel 2008. A certificarlo è l’Agenzia internazionale per l’energia che registra una inversione di tendenza legata alla ripresa dei consumi post crisi economica."

Leggi tutto il post...

25 maggio 2011

L'Australia gigante del carbone prova a immaginare una via d'uscita

Da Greenreport
"La Climate Commission di scienziati istituita dal governo australiano ha reso noto il rapporto "The Critical Decade" che evidenzia i terribili effetti che il cambiamento climatico potrebbe avere sull'Australia, e chiede che il settore energetico, dominato dal carbone, diventi "green" e che il governo cerchi di ottenere subito il sostegno parlamentare per il "carbon price", come una delle soluzioni per ridurre l'inquinamento.

Il rapporto evidenzia che le città costiere australiane sono minacciate dall'innalzamento del livello del mare, in Sydney, mentre l'acidificazione dell'oceano, causata dall'assorbimento della CO2 prodotta dai combustibili fossili, non risparmierà la Grande Barriera Corallina.

Le regioni costiere vicine alle più grandi città australiane, come Sydney e Melbourne, sono estremamente vulnerabili all'aumento del livello del mare, ad alluvioni e maree. Secondo la Climate Commission australiana «Il livello del mare potrebbe aumentare da 0,5 a 1 metro (da 1,64 piedi e 3,3 piedi) entro il 2100», minacciando le aree più abitate dell'Australia. Anche un aumento del livello del mare di 0,5 metri, che potrebbe avvenire entro il tempo di vita medio di un essere umano, potrebbe portare al susseguirsi di eventi climatici estremi e il riscaldamento degli oceani e dell'atmosfera, lo scioglimento dei ghiacci marini, potrebbero comportare «Enormi rischi» per l'economia australiana.

"The Critical Decade", punta a cambiare i termini dell'attuale dibattito politico in Australia, dove la politica climatica del governo della laburista Julia Gillard ha polarizzato l'elettorato ed è sotto costante attacco dell'opposizione conservatrice del partito liberale. Gli scienziati al momento di consegnare il rapporto alla Gillard hanno avvertito che «Questo è il decennio critico. Le decisioni che prenderemo da ora al 2020, determineranno la gravità dei cambiamenti climatici. Per minimizzare questo rischio, dobbiamo decarbonizzare la nostra economia e per passare alle fonti di energia pulita entro il 2050. Le emissioni di carbonio devono raggiungere il picco entro i prossimi anni e quindi declinare fortemente».

Realizzare tutto questo non sarà affatto facile. I 22 milioni di australiani sono responsabili di ben l'1,5% dei gas serra prodotti dagli oltre 6 miliardi di esseri umani, il che li rende i maggiori emettitori pro-capite di CO2 dell'intero pianeta. L'Australia è anche il maggiore esportatore di carbone del mondo e utilizza il carbone per produrre circa l'80% della sua elettricità. Inoltre la sua grande industria petrolifera, gasiera e mineraria (con il nuovo Eldorado del gas liquefatto che promette miliardi di dollari), porta ad ulteriormente aumento delle emissioni di gas serra.

Per provare a diminuire e compensare le emissioni il governo ha provato a mettere un prezzo sul carbonio prodotto dall'industria e ad organizzare un mercato delle emissioni sul modello europeo entro il 2012 che potrebbe prendere il via già nel 2015.

Secondo Will Steffen, uno dei membri della Climate Commission, la politica del governo dovrebbe essere più decisa per avviare davvero investimenti per la riconversione ecologica dell'industria e della produzione di energia. Il governo Gillard prevede un prezzo del carbonio tra i 20 e i 30 dollari australiani a tonnellata, ma l'Australia avrebbe bisogno di 100 miliardi di dollari in investimenti nel prossimo decennio per sostituire la vecchie centrali a carbone.

La situazione reale la spiega bene alla Reuters Richard McIndoe, l'amministratore delegato di TRUenergy: «L'incertezza sulla politica climatica ha affamato gli investimenti nel settore energetico australiano negli ultimi 3-5 anni. Carenze di potenza del carico energetico di base sono previsti per il 2013 - 2016. La dipendenza dell'Australia dalle centrali a carbone non potrà essere cambiata entro il 2020, dato che ci vorranno da 50 a 60 anni per costruire la rete energetica. Come investitori del settore siamo in un vicolo cieco e, come risultato, il capitale non viene investito, così non abbiamo visto la costruzione di nuove centrali Al momento abbiamo una proposta di carbon tax che in realtà non cambierà molto. A 20 dollari australiani a tonnellata non vediamo alcun cambiamento davvero tra il carbone e la gas-fired generation».

Il rapporto analizza anche i dati dei rapporti Ipcc e di altre organizzazioni internazionali e sottolinea i fortissimi rischi che corre l'Australia a causa di siccità ancora più estreme, inondazioni e incendi mortali: «Gli impatti del cambiamento climatico si fanno già sentire in Australia e in tutto il mondo con meno di 1 grado di riscaldamento globale. I rischi di futuri cambiamenti climatici, per la nostra economia, la società e l'ambiente, sono gravi, e crescono rapidamente con ogni grado in più di aumento della temperatura».

Per limitare gli aumenti della temperatura a 2 gradi centigradi, «Le emissioni di carbonio devono raggiungere il picco entro il 2020 e poi scendere, altrimenti il ​​mondo avrà di fronte un compito quasi impossibile per evitare cambiamenti climatici pericolosi».

Il rapporto non è affatto piaciuto all'opposizione conservatrice australiana che si oppone a qualsiasi tipo di carbon tax, profetizzando perdita di posti di lavoro e bollette alle stelle., Il powerbroker del Partito Liberale, Nick Minchin, ha definitogli scienziati che hanno redatto il rapporto «Allarmisti del riscaldamento globale».

Un'opinione che sembra condivisa da circa il 60% degli elettori, mentre solo il 30% è favorevole a tassare le emissioni. Ma la Gillard ha risposto seccamente: «Noi non abbiamo tempo... per le false dichiarazioni in questo dibattito. La scienza è chiara, l'inquinamento da anidride carbonica antropica sta facendo la differenza per il nostro pianeta e il nostro clima. Dobbiamo trovare il modo di andare avanti con il compito di ridurre l'inquinamento di carbonio e con un dibattito razionale su questo».

Secondo la senatrice dei Verdi Christine Milne «Il rapporto è una richiesta agli australiani ad andare oltre la "discussione facile" se il cambiamento climatico esista».

Leggi tutto il post...

17 aprile 2011

Gli effetti del riscaldamento globale in una mostra fotografica

"Gli effetti devastanti del global warming in 112 scatti di nove fotografi tra i più famosi del pianeta. In mostra dal 16 aprile al 27 maggio alla galleria 10b Photography di Roma. Fonte

I fotoreporter del collettivo Noor sono partiti ai quattro angoli della Terra per ritrarre la fine del mondo. "Riscaldamento globale" è un'espressione astratta e lontana; basta un'ondata di freddo come ne abbiamo avute quest'inverno e ci viene da pensare che sia tutta una balla. Ma non è così per i Nenet della Siberia, ritratti da Yuri Kozyrev: i pascoli delle renne diventano acquitrini, l'estrazione del gas li scaccia dal loro territorio ed essi rischiano l'estinzione. Non è così, qualche migliaia di chilometri più a sud, all'Equatore, per gli isolani delle Maldive, la nazione che ha la minor altitudine al mondo ed è sul punto di venir sommersa dall'innalzarsi delle acque oceaniche (foto di Francesco Zizola). La ricerca dei nove fotografi di Noor testimonia che è tutto vero. Noi stiamo, con le nostre mani, distruggendo il pianeta di cui dovremmo essere i custodi. Guardate la foresta amazzonica trasformata in una landa desolata (Kadir van Lohuizen), gli Inuit della Groenlandia senza più ghiaccio (Stanley Greene), il paesaggio di morte delle miniere di carbone polacche (Pep Bonet) o di quelle di rame negli Urali (ancora Kozyrev). Guardate soprattutto le immagini che vengono dall'Africa, dal Darfur sudanese, dove una guerra scatenata dal clima è già in corso, secondo la denuncia del segretario generale dell'Onu Ban Ki-Moon: gli allevatori contendono pascoli sempre più magri ai coltivatori. È in questo continente che la crescente scarsità delle risorse naturali annuncia le
maggiori catastrofi. È tutto vero; e il linguaggio silenzioso ma universale della fotografia risuona come un grido insopportabile.

LE IMMAGINI 1

Negli ultimi anni è stata più volte preannunciata la morte imminente del giornalismo d'inchiesta; ma dell'inchiesta fotografica è stato già ripetutamente celebrato il funerale. Troppo costosa da produrre; troppo scomoda da mostrare al pubblico; troppo invisa agli inserzionisti pubblicitari; troppo poco redditizia se paragonata alla foto di moda o di sport. Il lavoro dei reporter di Noor, iniziato nel 2009 e ancora in corso, dimostra che la fotoinchiesta è viva, o comunque pronta a risorgere. Costa solo coraggio, creatività, un po' di abnegazione. La mostra "Consequences" è alla galleria 10b Photography di Roma, via San Lorenzo da Brindisi 10b, dal 16 aprile al 27 maggio.

Leggi tutto il post...

18 febbraio 2011

Cina, una svolta verde necessaria

Fonte "Rinnovabili. Per Cina scelta obbligata, inquinamento troppo forte

La Cina ha compiuto passi giganteschi negli ultimi due decenni per modernizzare il proprio apparato industriale, promuovere un'economia più dinamica e migliorare il livello di vita della propria popolazione. Il riconoscimento è unanime sul piano internazionale, ma occorre anche chiedersi a quale prezzo questi cambiamenti siano avvenuti. Il rapporto "China Renewable Energy Market Outlook", realizzato dalla società di consulenza Research and Markets, sottolinea il costo enorme in termini di inquinamento ambientale che la Cina sta pagando oggi per sostenere la propria crescita economica. Negli ultimi due anni circa due terzi dell'energia primaria consumata in Cina sono stati prodotti con il carbone. Il miglioramento dell'efficienza energetica ha fatto progressi importanti, ma non può tenere il passo con la crescita della domanda: i livelli crescenti di inquinamento stanno provocando gravi problemi di salute alla popolazione e, attraverso le piogge acide, seri danni ai raccolti. Ciò spiega la crescente attenzione che il governo cinese sta rivolgendo allo sviluppo delle fonti rinnovabili, da cui cerca di trarre vantaggi anche in termini di sicurezza energetica e di competitività sui mercati: dal 2000 gli investimenti in questo settore hanno una parte sempre più importante nella strategia energetica nazionale. Dalle fonti rinnovabili la Cina ricavava già nel 2006 il 16% della propria elettricità. L'accento è posto soprattutto sull'energia eolica, ma il contributo maggiore viene dal settore idroelettrico: la potenza installata ha raggiunto i 145.000 MW nel 2007, ed è oggetto di ulteriori e imponenti programmi di espansione. Copyright TM News(c) 2011

Leggi tutto il post...

12 febbraio 2011

Per la sopravvivenza della specie

Da Greenreport.it l'articolo: C'è futuro per l'umanità? Solo se sapremo coevolverci con la natura

"In questi giorni l'European environment agency ha diffuso una nota dal titolo "Analysing and managing urban growth" (vedasi sito www.eea.europa.eu ) nel quale ricorda come la copertura artificiale del suolo ha avuto in Europa, un incremento del 3.4% dal 2000 al 2006, di gran lunga l'incremento maggiore rispetto a tutte le categorie di uso del suolo. In base ai dati di un progetto europeo, il PLUREL del 2010, le aree peri urbane (discontinue) crescono in maniera quattro volte più rapide dell'aree urbane continue. Già nel 2006 l'EEA aveva pubblicato l'ottimo rapporto "Urban sprawl in Europe. The ignored challenge" dove si faceva il punto sulla rapida diffusione delle aree urbane nel nostro continente.

Dal 2009, secondo i dati della Population Division del Department of Economic and Social Affairs delle Nazioni Unite, oltre la metà della popolazione umana vive in aree urbane (il dato preciso registrato dall'ONU in quell'anno è stato di 3.42 miliardi nelle aree urbane rispetto a 3.41 miliardi presenti nelle aree rurali). Il numero di esseri umani che vivranno in tali aree tende inevitabilmente a crescere. L'ultimo rapporto delle Nazioni Unite disponibile in merito è il "World Urbanization Prospects. The 2009 Revision" che fa presente come la popolazione che vive in aree urbane passerà dai 3.4 miliardi del 2009 ai 6.3 miliardi del 2050.

Si tratta di una crescita di 2.9 miliardi, a fronte di una popolazione planetaria che nel 2009 era di 6.8 miliardi e che nel 2050 dovrebbe essere di 9.1 miliardi. Inoltre questa significativa crescita della popolazione urbana avrà luogo nelle città delle aree meno sviluppate del mondo. Nel 2009 il 75% degli abitanti delle aree più sviluppate del mondo vivevano in aree urbane rispetto al circa 45% degli abitanti delle aree meno sviluppate, proporzione che, nel 2050, dovrebbe essere rispettivamente dell'86% e del 66%.

Nel 2009 i 21 agglomerati urbani qualificati come "megacities", le megacittà, registravano non meno di 10 milioni di abitanti. La più grande megacity planetaria nel 2009 è Tokyo con 36.5 milioni di abitanti seguita da Delhi con 21.7, San Paolo in Brasile con 20 milioni, Mumbay in India con 19.7 e Città del Messico con 19.3 milioni.
Nel 2025 Tokyo dovrebbe mantenere il 1° posto con 37.1 milioni, seguita da Delhi con 28.6, Mumbay con 25.8, San Paolo con 21.7 e Dhaka in Bangladeh con 20.9.

Nel prossimo mese di marzo le Nazioni Unite dovrebbero produrre il loro rapporto biennale sulla popolazione mondiale "World Population Prospects: The 2010 Revision" e ovviamente ne daremo conto sulle pagine di questa rubrica. L'attenzione sui numerosi aspetti ambientali, sociali ed economici che il fenomeno dell'urbanizzazione presenta sta crescendo in tutti gli ambiti delle nostre conoscenze teoriche e delle pratiche gestionali e operative.

Ci attende un mondo sempre più urbano. L'impatto della crescita dell'urbanizzazione sui sistemi naturali va ben oltre la semplice trasformazione fisica delle stesse aree urbanizzate, come ci dimostra l'ultimo interessantissimo lavoro dell'ecologo Erle Ellis, dell'Università del Maryland, "Anthropogenic transformation of the terrestrial biosphere" apparso sul numero del 2 febbraio scorso della prestigiosa rivista "Philosophical Transactions of the Royal Society A" (vedasi il suo sito www.ecotope.org ) .

Sono anni che Ellis ed i suoi colleghi illustrano, con ricche e documentate ricerche la presenza, sulle terre emerse del nostro meraviglioso pianeta, di quelli che vengono ormai definiti biomi antropogenici; i biomi cioè dei sistemi naturali così profondamente trasformati dall'intervento umano tanto da richiedere una nuova classificazione e la definizione generale, appunto, di biomi antropogenici.

Come ha scritto lo storico John McNeill nel suo bellissimo volume "Qualcosa di nuovo sotto il sole" (Edizioni Einaudi, 2002): " Nel XX secolo il processo di urbanizzazione ha avuto ripercussioni enormi sull'intera vita dell'uomo ed ha rappresentato una frattura notevole rispetto ai secoli precedenti. In nessun altro luogo come in città l'uomo ha alterato l'ambiente: ma l'impatto delle città è andato ben al di là delle mura cittadine. L'espansione urbana è stata fonte primaria di cambiamento ambientale." Nel XX secolo le città sono diventate l'habitat più diffuso della specie umana riconfigurando anche il mondo rurale e convertendone una parte sempre più ampia alla soddisfazione delle esigenze della popolazione urbana. Questi fenomeni saranno sempre più accentuati in questo secolo. La scienza della sostenibilità si occupa di analizzare e studiare le relazione dei Social ecological systems, quindi le interazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali, comprendendo quanto il metabolismo sociali intacchi, modifichi, stravolga i metabolismi naturali.
Dall'inizio dello scorso decennio il Sustainable Europe Research Institute (SERI), insieme ad altri prestigiosi istituti scientifici, ha contribuito notevolmente alle ricerche sui metabolismi urbani rendendo noto i dati sui flussi di materia a livello mondiale e per singoli stati, derivanti dalle più recenti ricerche (vedasi il sito http://www.materialflows.net ).

Il consumo mondiale di risorse naturali come il petrolio, il carbone, i metalli, i materiali da costruzione ed i prodotti dell'agricoltura e della selvicoltura è aumentato anno dopo anno. La quantità annuale di risorse estratte dagli ecosistemi del mondo è cresciuta dai 40 ai 60 miliardi di tonnellate annue dal 1980 al 2008.
Nello stesso tempo il progresso tecnologico ha consentito una maggiore efficienza della produzione. Rispetto al 1980 oggi, mediamente, si utilizza un 25% in meno di risorse naturali per produrre un' unità di valore economico.

Nonostante ciò, essendo l'economia mondiale cresciuta nello stesso periodo dell'82%, questo guadagno di efficienza viene, di fatto, sorpassato dalle dimensioni e dall'incremento complessivi della produzione e del consumo.
Gli scenari futuri dimostrano ulteriori preoccupanti livelli di crescita. Gli studiosi stimano un'estrazione di risorse di 80 miliardi di tonnellate per il 2020, e sembra superfluo ricordare che oggi, gli abitanti in Africa consumano almeno dieci volte di meno degli abitanti nei paesi industrializzati.

Questo flusso di energia e materie prime viene accelerato nei sistemi urbani.
Il grande ecologo Eugene Odum, scomparso nel 2002, nel suo bellissimo "Basi di ecologia" (edizioni Piccin, 1988 che deriva dal suo "Fondamenti di ecologia", sempre edito in italiano da Piccin e del quale nel 2006 è stata pubblicata la nuova edizione ) ha infatti definito la città come un incompleto sistema eterotrofo (gli eterotrofi sono gli esseri o i sistemi viventi che consumano i nutrienti ed i vari composti organici per mantenere il proprio sviluppo); è cioè un sistema dipendente da ampie aree limitrofe per l'ottenimento di energia, cibo, fibre, acqua e degli altri materiali.

Odum ricorda che la città differisce da un ecosistema eterotrofo naturale, come una comunità di ostriche, perché (1) ha un metabolismo molto più intenso per unità di area e richiede quindi un flusso molto maggiore di energia concentrata in entrata (attualmente costituito soprattutto da combustibili fossili), (2) ha una grande richiesta in entrata di materiali, come metalli per uso commerciale ed industriale, oltre le materie prime necessarie al sostentamento della vita ed (3) ha un'uscita molto elevata di sostanze di rifiuto pericolose, la maggior parte delle quali sono sostanze sintetiche molto più tossiche dei loro progenitori naturali.

Odum afferma : "La rapida urbanizzazione e sviluppo delle città, durante l'ultimo mezzo secolo, ha cambiato la faccia della terra probabilmente più di ogni altra attività umana nel corso della storia [...] Anche nelle zone economicamente povere, le città stanno crescendo molto più velocemente della popolazione in generale. Le città non occupano una grandissima area della Terra, ma solo una superficie dall'1 al 5%. Le città alterano la natura dei fiumi, delle foreste, delle praterie e delle terre coltivate, per non menzionare l'atmosfera e gli oceani, dato il loro impatto con estesi ambienti limitrofi. Una città può influenzare una foresta da lei distante, non solo direttamente per l'inquinamento dell'aria o per il consumo del legname, ma anche indirettamente alterando la gestione forestale....... La città moderna è un parassita dell'ambiente rurale dato che, con l'attuale gestione, la città produce poco o niente cibo o altri materiali organici, non purifica aria e ricicla poco o niente dell'acqua o dei materiali inorganici."

Abel Wolman in un noto articolo apparso su "Scientific American" nel 1965, intitolato proprio "The metabolism of cities" si occupò proprio del metabolismo urbano applicando quindi i meccanismi tipici del metabolismo di un sistema naturale ad un sistema altamente artificiale, prodotto dall'azione umana.

Wolman faceva presente che sono tanti i flussi che vengono canalizzati da un sistema urbano e tanti sono quelli che ne fuoriescono. In particolare individuava tre input e cioè acqua, cibo e combustibili e tre output e cioè acque reflue, rifiuti solidi ed inquinanti atmosferici.
Il bilancio dei flussi di materia ed energia che attraversano un sistema urbano sono certamente significativi, soprattutto in città con una presenza importante di popolazione e quindi con una maggiore richiesta di energia e materie prime.

Oltre all'incremento dei flussi di materia ed energia la crescita dei sistemi urbani provoca uno dei fenomeni più preoccupanti per la modificazione degli ambienti naturali e cioè la frammentazione ambientale , come dimostrano chiaramente tra i tanti, i lavori del citato Ellis.
Oggi in Europa almeno il 75% della popolazione vive in aree urbane. Più di un quarto del territorio dell'Unione Europea è direttamente coinvolta da un utilizzo urbano del suolo; al 2020 si stima che circa l'80% della popolazione europea vivrà in ambienti urbani mentre in sette paesi questa percentuale sarà del 90%.

Ormai assistiamo ad un paesaggio sempre più modificato a causa delle nuove tipologie abitative, dal turismo, dalla crescente urbanizzazione delle aree costiere; in questo paesaggio in continua modificazione assistiamo alla dispersione e diffusione delle città, alla formazione di vere e proprie "conurbazioni", una sorta di continuum urbano ampiamente esteso.

Storicamente la crescita delle città è stata sempre legata all'incremento della popolazione. Oggi in situazioni come quella europea, la crescita dei sistemi urbani non deriva direttamente dalla crescita della popolazione ma da diversi fattori come gli spostamenti di popolazione dal centro delle città in ambienti suburbani.

I fenomeni che agiscono sul cambiamento di utilizzo del suolo costituiscono un tema centrale per il nostro futuro. I sistemi urbani sono sempre più sistemi dissipativi di energia e risorse, producono sempre più scarti e rifiuti e trasformano sempre di più il suolo del nostro pianeta.
Questi problemi, correlati all'insieme interconnesso degli altri aspetti del nostro impatto sui sistemi naturali, ci indica la necessità di azioni urgenti che rimettano il futuro delle società umane in un ambito di vera e propria coevoluzione con la natura.
La sfida di questo secolo è proprio quella di avere la lungimiranza, la capacità di futuro, la capacità innovativa, necessarie a cambiare strada.
Ce la faremo ? La risposta la possiamo dare solo noi.

* direttore scientifico di Wwf Italia

Leggi tutto il post...

5 febbraio 2011

comprendere il problema energia

Un interessantissimo articolo da Greenreport
"Se un avatar di second life consuma più energia di un africano...

In varie occasione, nelle pagine di questa rubrica, ho semplificato le sfide dovute alla complessità delle relazioni tra specie umana e sistemi naturali, ricordando la famosa equazione dell'impatto che il grande ecologo Paul Ehrlich ed il noto esperto di questioni energetiche John Holdren, sintetizzarono agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, sulle pagine della prestigiosa rivista scientifica "Science" (e che furono oggetto di un interessante dibattito tra lo stesso Paul Ehrlich ed un altro grande studioso dei sistemi naturali, Barry Commoner sul valore da fornire ai diversi fattori considerati). L'equazione, come ricorderete, è I = P x A x T. I sta per impatto, P per popolazione, A per "affluence" cioè stile di vita e T per tecnologia, ciò vuol dire che l'impatto umano sui sistemi naturali è fondamentalmente rappresentato dal prodotto di questi tre fattori. Relativamente alle problematiche rappresentate per il nostro futuro dalle questioni energetiche, Paul and Anne Ehrlich scrivevano nel loro volume "Per salvare il pianeta. Come limitare l'impatto dell'uomo sull'ambiente" (Franco Muzzio editore, 1992) : «L'energia è al centro della nostra vita: se essa non viene continuamente fornita alle cellule del nostro corpo, moriamo. L'energia fa funzionare gli ecosistemi che sostentano la società. Essa è anche essenziale per la vita della civiltà; se la società industriale non consumasse una grande quantità di energia, collasserebbe. Non sorprende quindi che l'uso dell'energia sia tanto fondamentale nell'assalto che l'uomo porta all'ambiente da poter svolgere da surrogato nell'equazione I=PAT» . I coniugi Ehrlich in questo loro bel libro sottolineano la situazione energetica al 1990. Venti anni fa nei paesi ricchi vivevano circa 1,2 miliardi di persone, con una media di consumo pro capite di 7,5 kW-anno per un totale di 9 TW-anno (il terawatt, TW, è un miliardo di kW), mentre nei paesi in via di sviluppo vi erano circa 4,1 miliardi di abitanti con un consumo medio di energia di 1,0 kW-anno pro capite, per un totale di 4,1 TW-anno. Il consumo totale di energia nel mondo intorno al 1990 era quindi di13,1 TW- anno.

In un rapporto dello Stockholm Environment Institute (SEI) curato da Schippers e Meyers dal titolo "Energy Transitions" , John Holdren, allora all'University of California a Berkeley (oggi Holdren è capo scientifico della Casa Bianca) elaborò uno scenario energetico definito "ottimistico", dal titolo "The Transition of Costlier Energy" nel quale, partendo dalla situazione 1990, si prevedeva per il 2025, una situazione in cui i paesi poveri, con una popolazione stimata di 6,8 miliardi, raggiungessero un consumo di energia primaria di 2,0 kilowatt-anno, per un totale di 13,6 TW-anno, rispetto ad un abbassamento del consumo energetico dei paesi ricchi, con una popolazione di 1,4 miliardi, di 3,8 kilowatt-anno per un totale di 5,3 TW-anno, con un totale complessivo di 18,9 TW-anno. Nel resto di quello che, allora era ancora il nuovo secolo, cioè entro il 2100, lo scenario di Holdren prevedeva una convergenza tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo su di un consumo medio di energia primaria pro capite di 3 kW-anno, cioè, prevedendo per una popolazione non superiore ai 10 miliardi, un consumo totale di energia di 30 TW-anno. Lo scenario di Holdren assume che la consistenza numerica della popolazione possa essere limitata a 10 miliardi e che si possa ottenere un tenore di vita di buon livello, con un consumo di energia equivalente da un terzo ad un quarto di quello presente, negli Stati Uniti, ai primi anni Novanta del secolo scorso. Lo scenario BAU (Business As Usual) a fronte di quello previsto da Holdren, per il 2100 prevede consumi energetici addirittura di 75 TW-anno, ritenuti necessari per dare a 10 miliardi di abitanti uno stile di vita simile a quello dei ricchi degli anni Novanta; stili di vita alimentati da tecnologie degli anni Novanta che richiedono 7,5 kW-anno pro capite.

Proprio in questi giorni è stato pubblicato anche il bellissimo volume, "Energy for a Sustainable World. From the Oil Age to a Sun-Powered Future" , edito da Wiley-VCH, di due grandi studiosi italiani di chimica e di energetica, Nicola Armaroli dell'Istituto per la sintesi organica e la foto reattività del CNR e Vincenzo Balzani, professore di chimica all'Università di Bologna, uno dei nostri più autorevoli scienziati di fama internazionale, che da decenni si occupa di fotochimica sopramolecolare, nanotecnologia e fotosintesi artificiale. Armaroli e Balzani sono autori di altri due bei volumi sulle questioni energetiche, l'ultimo dei quali "Energia per l'astronave Terra" pubblicato da Zanichelli nel 2008 è stato più volte richiamato nelle pagine di questa rubrica e costituisce uno strumento assolutamente indispensabile per chiunque voglia comprendere bene questo complesso problema.

Nell'Appendice dell'ultimo volume, Armaroli e Balzani, ricordano alcuni dati fondamentali sul nostro consumo energetico. Ogni secondo l'umanità consuma attualmente circa 1000 barili di petrolio, 93000 metri cubici di gas naturale e 221 tonnellate di carbone. Se desiderassimo mantenere il trend dell'incremento del consumo energetico che abbiamo avuto nell'arco degli ultimi 60 anni , fino al 2050 vi sarebbe la necessità di costruire ogni giorno circa tre centrali a carbone, o due impianti nucleari o 10 chilometri quadrati di moduli fotovoltaici. Un Avatar di Second Life, quindi una persona digitale creata in un mondo virtuale al computer, consuma oggi più elettricità di una persona reale in un paese in via di sviluppo. Armaroli e Balzani ci ricordano che i 2,3 miliardi di persone che popolavano la Terra nel 1950 consumavano 2.85 TW, corrispondenti a 1.1 TW ogni miliardo di persone. Nel 2010 la popolazione mondiale di 6,8 miliardi di abitanti consumava 15 TW, cioè circa 2.2 TW per ogni miliardo di persone. Proseguendo su questo trend nel 2050, il tasso di consumo potrebbe essere oltre i 40 TW, con una popolazione di oltre 9 miliardi. Per affrontare un incremento di circa 24 TW tra il periodo attuale ed il 2050 dovremmo costruire l'equivalente di 48000 centrali a carbone (da 500 MW ciascuna) oppure 24.000 centrali nucleari (da 1 GW a testa) oppure 150000 chilometri quadrati di moduli fotovoltaici (che potrebbero coprire, in pratica, metà della superficie del nostro Bel Paese). E' evidente che scenari di questo tipo sono insensati perché, invece, dovremmo, nel frattempo, agire concretamente per ridurre in maniera drastica le emissioni di anidride carbonica, mentre non abbiamo ancora soluzioni al problema della sistemazione sicura delle scorie nucleari ed esistono ovvie ed evidenti limitazioni alla disponibilità di risorse, ambienti e territori. Armaroli e Balzani affermano chiaramente che la sola possibile risposta alla richiesta di espansione delle domande di energia non può più essere quella di prolungare l'incremento della produzione energetica, ma, piuttosto, la necessità di ridurre il consumo energetico.

I coniugi Ehrlich scrivono nel libro già citato: «Il modello dei consumi energetici in tutto il mondo è un modello di crescente dipendenza da risorse non rinnovabili, piuttosto che da quelle rinnovabili o, in termini economici, dalle scorte piuttosto che dai flussi [..] Il consumo di energia è chiaramente un settore primario in cui l'umanità sta vivendo sul capitale, non sul reddito».

Proprio ieri il WWF ha rilasciato un interessante rapporto dal titolo "The Energy Report. 100% Renewable Energy by 2050", frutto di due anni di lavoro con il noto gruppo di analisi energetica Ecofys e OMA (The Office of Metropolitan Architecture) . La grande sfida che si pone il rapporto è prevedere uno scenario con possibilità di riduzione della domanda, eliminazione degli sprechi e incremento dell'efficienza e del risparmio. D'altronde solo così, come abbiano sin qui visto, è possibile avviare un futuro energetico significativo. Il rapporto prova a documentare la possibilità realistica di soddisfare, entro il 2050, tutte le esigenze mondiali di energia alimentate in modo pulito,rinnovabile ed economico con gli investimenti bilanciati dai benefici, un risparmio di almeno 4.000 miliardi di euro l'anno entro il 2050( grazie ai risultati della maggiore efficienza energetica), con investimenti significativi nel comparto delle rinnovabili e con il risultato di una riduzione di emissioni di CO2 dell'80%. Secondo lo scenario WWF-Ecofys, nel 2050 la richiesta totale di energia viene valutata inferiore del 15% di quella del 2005, malgrado l'aumento della popolazione, della produzione industriale, del trasporto e delle comunicazioni - rendendola comunque disponibile anche a coloro che attualmente non ne hanno (il rapporto si apre proprio ricordando che ancora oggi 1,4 miliardi di persone non hanno accesso a forniture affidabili di elettricità).
In particolare, in armonia con molte delle questioni e delle proposte trattate nel volume di Armaroli e Balzani, il rapporto ricorda che l'energia solare può contribuire significativamente a questo scenario. Attualmente solo per lo 0,02% della nostra produzione totale di energia è basato sul solare, ma questa quota sta crescendo rapidamente.

Nello scenario Ecofys, entro il 2050 l' energia solare potrebbe fornire circa metà di tutta il nostro fabbisogno elettrico, metà del riscaldamento degli edifici e il 15 % del calore per il settore industriale. Per quanto riguarda il vento, oggi l'eolico soddisfa circa il 2% della domanda globale di elettricità', con una potenza più
che raddoppiata negli ultimi quattro anni. In Danimarca, l'energia eolica già rappresenta un quinto della produzione di elettricità a livello nazionale. L'eolico, secondo lo scenario proposto nel rapporto del WWF, potrebbe soddisfare un quarto del fabbisogno mondiale di elettricità entro il 2050, se saranno confermati gli attuali tassi di crescita, con l'installazione di ulteriori generatori di cui 1.000.000 sulla terraferma, in mare o vicino alla costa, e 100.000 in alto mare.
Per l'energia geotermica, la potenza installata sta crescendo al ritmo di circa il 5% l'anno e l'analisi di WWF-Ecofys indica che si potrebbe sperare di raddoppiare questo tasso di crescita, fino a raggiungere il 4% circa dell'intera produzione elettrica nel 2050. Minori performance sono invece previste, nel 2050, per l'energia idroelettrica che, secondo le proiezioni contenute nel rapporto, dovrebbe fornire il 12% della produzione totale di elettricità, rispetto al 15% odierno mentre dal fronte della bioenergia, il 60% dei combustibili e del calore necessari per l'industria potrebbe provenire dalle biomasse. Il 13% del calore necessario per gli edifici proverrà dalle biomasse, e le biomasse saranno ancora necessarie nell'ambito del mix per la produzione di elettricità (circa il 13%), ai fini del bilanciamento con altre tecnologie delle energie rinnovabili. Il rapporto è scaricabile dal sito del WWF Internazionale www.panda.org e da quello del WWF Italia www.wwf.it con una sintesi in italiano.

Le politiche energetiche dell'immediato futuro dovranno certamente cambiare rotta rispetto ai percorsi seguiti sino ad ora.

Leggi tutto il post...

14 gennaio 2011

2010, caldo record da 150 anni

Da Repubblica.it "2010, il più caldo in 150 anni - dalla Nasa allarme per il clima"

Nuovo record per la temperatura terrestre. Il 2010 ha superato il 2005 e il 1998 considerati (a secondo del tipo di misure eseguite) come gli anni più caldi dal 1880 ad oggi. Il dato è stato rilasciato dal Giss (Goddard Institute for Space Studies) della Nasa. La differenza rispetto al 2005 è di soli 0.01 gradi centigradi, ma nonostante ciò la Nasa è riuscita a determinare che l'anno appena trascorso è stato il più caldo dei precedenti. Dopo il 2005 e il 1998 seguono a ruota il 2002, il 2003, il 2006 e il 2007.
Stando ai dati in possesso della Nasa si può affermare che la temperatura del 2010 è risultata di 0,74°C superiore alla media ottenuta tra il 1951 e il 1980. Facendo analisi a più lungo periodo, secondo gli scienziati ora la temperatura si sta innalzando ad una velocità di circa un quinto di grado centigrado ogni 10 anni.

"Se le condizioni attuali continueranno a rimanere tali, ossia se non si diminuirà l'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera, il 2010 conserverà per ben poco tempo il record acquisito", ha detto James Hansen del Giss. Il risultato prodotto dall'Istituto americano è quanto ottenuto dalla raccolta di dati di oltre 1.000 stazioni meteorologiche sparse per il mondo, di dati raccolti dai satelliti meteorologici, da osservazioni marine e da stazioni scientifiche poste in Antartide.

Secondo i ricercatori della Nasa la situazione emersa deve far particolarmente riflettere in quanto il 2010 è stato interessato, almeno per la seconda parte dell'anno, dalla Nina un fenomeno climatico che raffredda la superficie di una grande parte dell'Oceano Pacifico, che poi si riflette su tutto il pianeta.

"Se si epurano i dati della Nina e del Nino che l'ha preceduta si scopre che l'ultima decade si è riscaldata ad una velocità sicuramente superiore rispetto alle due decadi precedenti", ha spiegato Hansen.

Il ricercatore sottolinea come i due inverni particolarmente freddi che hanno interessato il nord del pianeta non devono quindi, lasciarci ingannare: l'aumento della temperatura terrestre prosegue senza sosta e il freddo è proprio una conseguenza di ciò. Al Polo Nord infatti, dove le temperature crescono più velocemente che in ogni altra parte del pianeta, si sono create delle situazioni meteorologiche anomale create dalla diminuzione dei ghiacci, le quali spingono verso sud venti freddi. Ma nulla più. Sul resto del pianeta le temperature non hanno mostrato diminuzioni di sorta in nessuna delle stagioni dell'anno.
(13 gennaio 2011)

Leggi tutto il post...

29 dicembre 2010

Organismi Geneticamente Modificati news

Milioni di anni. Quello che siamo è il risultato dell'evoluzione entro un ambiente in cui ogni elemento dell'ecosistema vive in equilibrio con gli altri. Ad evolversi non è infatti solo il singolo organismo, ma il rapporto tra essi.

Un bel giorno l'uomo fa la scelta più avventata mai fatta: modificare il codice genetico di determinati organismi per fini produttivi. Senza avere una pallida idea delle implicazioni che questa scelta potrebbe avere sul genere umano. Senza sapere cosa, sul lungo periodo, potrebbe accadere con la diffusione nell’ambiente di questi organismi modificati.

Una arroganza che potremmo pagare cara, eppure il principio di precauzione, crescenti testimonianze della pericolosità degli OGM (vedi la sterilità riscontrata nei topi), il pericolo infestazione / riduzione della ricchezza genetica del pianeta, finanche la loro produttività molto più scarsa del previsto, i problemi legali e i danni economici alle economie locali derivanti dai brevetti genetici: tutto questo non è stato finora sufficiente a fermare la follìa degli OGM.

Segue una serie di news dalla newsletter di Equivita

24/11/10
Germania: Corte costituzionale riafferma la validità delle “regole stringenti” sugli Ogm
Fonte: Ufficio stampa Corte costituzionale


Pronunciandosi sul ricorso presentato dal Land Sassonia-Anhalt contro la “Legge federale sull’ingegneria genetica”, la Corte costituzionale tedesca ha riaffermato la legittimità e costituzionalità delle misure in essa contenute. La Corte ha riconosciuto che l’ingegneria genetica comporta una modifica irreversibile delle strutture elementari della vita e che è difficile, se non impossibile, arginare la diffusione del materiale geneticamente modificato immesso nell’ambiente. Mancando ancora una conoscenza scientifica degli effetti a lungo termine dell’ingegneria genetica, è compito del legislatore preservare dai possibili effetti avversi delle colture gm i cittadini e l’ambiente, anche in virtù del vincolo di responsabilità che lega le generazioni attuali a quelle future. Resta in piedi, così, l’obbligo per chi contamina coltivazioni tradizionali o biologiche di risarcire i propri vicini, nonché quello di iscrivere le coltivazioni gm sperimentali in un registro di pubblico accesso che ne consenta il costante e trasparente monitoraggio.

12/11/10
“Eurobarometro sulla biotecnologia 2010”: cresce in Europa l’opposizione al cibo gm
Fonte: Greenpeace


Secondo il nuovo “Eurobarometro sulla biotecnologia” la percentuale di quanti in Europa si oppongono ai cibi geneticamente modificati è in aumento. Dichiara Marco Contiero di Greenpeace: “Il sondaggio ha prodotto risultati inequivocabili: il 61% della popolazione europea è contraria a un’ulteriore diffusione degli alimenti gm in UE”. Nel precedente Eurobarometro riguardante gli Ogm (“Attitudine dei cittadini europei verso l’ambiente”, 2007) i contrari al cibo gm costituivano il 58% della popolazione.
Per i cittadini europei gli alimenti gm sono fondamentalmente innaturali (70%), non sicuri per la salute umana (59%), non sicuri per le generazioni future (58%), vantaggiosi per alcuni, ma causa di rischi per altri. Meno di un terzo di tutti gli intervistati ritiene che gli Ogm siano utili all’economia e l’84% dei cittadini dimostra di avere una buona conoscenza del problema. Ciò prova che, contrariamente a quanto sostiene l’industria biotech, l’opposizione dell’opinione pubblica europea agli Ogm è il prodotto di una scelta informata e non di ignoranza. Lo conferma la cospicua perdita di consensi in un paese, la Spagna, tradizionalmente pro-Ogm e in cui i transgenici sono coltivati su vasta scala: tra il 2005 e il 2010 la percentuale dei favorevoli agli Ogm è passata dal 53 al 35%.

10/11/2010
Unione europea: debutto disastroso per la patata Amflora
Contaminazione, rifiuto sociale e il ricorso di cinque governi sintetizzano il suo primo anno di coltivazione

Rompendo un’ultradecennale moratoria di fatto, la Commissione europea ha autorizzato lo scorso marzo la coltivazione della patata gm Amflora sul territorio dell’Unione. Dopo la prima semina, tuttavia, il bilancio non potrebbe essere più negativo. Rifiutata dall’opinione pubblica e dall’industria, gran parte del raccolto del vegetale gm è risultato contaminato e quindi sequestrato. Austria, Ungheria e Lussemburgo ne hanno proibito la coltivazione e cinque governi europei ne hanno contestato l’approvazione davanti alla Corte di Giustizia europea.
Nel corso del 2010 la patata Amflora è stata coltivata complessivamente su 267 ettari di terra, suddivisi tra Svezia, Germania e Repubblica ceca. In Svezia il debutto di Amflora si è intrecciato con lo scandalo provocato da un’altra patata gm, Amadea, coltivata sul suolo dell’Unione pur non essendo autorizzata. Per effetto della contaminazione causata dalla patata illegale, 16 dei 120 ettari di Amflora coltivati in Svezia sono stati distrutti. Sorte non migliore è toccata ai 15 ettari coltivati in Germania, anch’essi sequestrati per il rischio contaminazione e assicurati in un magazzino del governo federale fino a nuovo ordine.
Anche l’industria europea dell’amido ha voltato le spalle ad Amflora, per evitare problemi di contaminazione e non incorrere nel rifiuto dei consumatori. Del resto, esistono già sul mercato patate tradizionali dotate dello stesso contenuto di amido, a ulteriore conferma del fatto che metterne in circolazione una geneticamente modificata pericolosa per la salute umana fosse del tutto innecessario.
01/11/2010
Giappone: approvato un protocollo internazionale contro i rischi posti dagli Ogm
Fonte: Clarissa, di G. Sinatti


Un nuovo protocollo sulla responsabilità ed il risarcimento in caso di danni causati dagli spostamenti transfrontalieri di organismi viventi geneticamente modificati (LMO) è stato adottato lo scorso 15 ottobre nel quadro della Convenzione sulla Biodiversità (CBD), approvata il 22 maggio del 1992 e sottoscritta ad oggi da 188 Paesi.
Ci sono voluti ben sei anni di negoziati per giungere a questo "protocollo addizionale di Nagoya-Kuala Lumpur" che rende operativo l'articolo 27 del cosiddetto Protocollo di Cartagena sulla Bio-sicurezza, del 29 gennaio 2000, un accordo internazionale sviluppato nel quadro della CBD, il cui scopo è di definire a livello internazionale misure rivolte a proteggere la diversità biologica dai rischi potenziali posti dagli organismi geneticamente ingegnerizzati dalle moderne biotecnologie: il citato articolo 27 prevede appunto l'elaborazione di regole e procedure internazionali per la responsabilità ed il risarcimento in caso di danni alla biodiversità causati dalla movimentazione di organismi viventi geneticamente modificati.
Il documento approvato il 16 ottobre scorso stabilisce infatti che tutti gli operatori (commerciali, produttori, esportatori, importatori, trasportatori) saranno ritenuti responsabili anche dal punto di vista finanziario della movimentazione di questo tipo di organismi fra Stati diversi e degli eventuali danni conseguenti.
Il nuovo accordo sarà disponibile per ulteriori adesioni presso la sede delle Nazioni Unite dal 7 marzo 2011 al 6 marzo 2012 ed entrerà in vigore novanta giorni dopo essere stato ratificato da almeno 40 Paesi che aderiscono al Protocollo di Cartagena sulla Biodiversità.
13/09/10
Stati Uniti: Fondazione Gates investe nella Monsanto
Fonte: Via Campesina e Community Alliance for Global Justice

Nel secondo quadrimestre del 2010 la “Fondazione Bill and Melinda Gates” ha acquistato 500.000 azioni della Monsanto investendo oltre 23 milioni di dollari nella multinazionale. Lo ha reso noto un sito web di finanza suscitando un’ondata di indignazione tra le organizzazioni di agricoltori e della società civile di tutto il mondo. La “Fondazione Gates” è stata costituita nel 1994 dal fondatore della Microsoft Bill Gates e oggi esercita un’influenza egemone sulla politica globale per lo sviluppo agricolo, riversando centinaia di milioni di dollari su progetti che incoraggiano gli agricoltori dei paesi poveri a utilizzare sementi gm e fitofarmaci della Monsanto. La recente acquisizione delle azioni della multinazionale, però, dimostra che tale attività di promozione è motivata più dalla ricerca di profitti che dalla filantropia.
Lo stretto legame con la Monsanto e altre multinazionali biotech, tuttavia, non è l’unica stigmate dei progetti e delle iniziative multimiliardarie che fanno capo alla “Fondazione Gates” (AGRA, GAFSP, “Feed the Future Initiative”, ecc …).
Un rapporto del 2008 commissionato dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite (International Assessment of Agricultural Knowledge Science and Technology for Development - IAASTD) promuove soluzioni alternative ai problemi della fame e della povertà, evidenziandone l’origine sociale ed economica. Secondo il rapporto, l’agricoltura agro-ecologica su base familiare risponde meglio di quanto non faccia il modello industriale esportato dalla Fondazione Gates alle necessità dei paesi poveri ed è in grado di produrre cibo continuando a rispettare il pianeta.
Nelle parole di un’esponente di “Via Campesina”, inoltre: “Nessuna fondazione – quand’anche ben intenzionata - può arrogarsi il diritto di definire le politiche agricole e alimentari di una nazione. La democrazia richiede la partecipazione informata della società civile, affinché questa valuti ciò che è nel migliore interesse della gente”.

Leggi tutto il post...

24 dicembre 2010

Il gioco delle relazioni

Qualcuno parla di noi: IlCambiamento

E nel medesimo sito abbiamo trovato una interessante lettura che vi proponiamo: "Città di Transizione, intessere una rete è il punto di partenza"

Leggi tutto il post...

21 dicembre 2010

Dagli USA norme antinquinamento più severe per le centrali a carbone

Da QualEnergia.it
"La stangata dell'Epa al carbone statunitense

Un duro colpo per il carbone mentre le rinnovabili tirano un sospiro di sollievo: dagli Usa arrivano buone notizie per il clima. Al Senato è infatti passata la legge che proroga per un anno alcuni incentivi vitali per le energie rinnovabili, intanto dall'EPA (Environmental Protection Agency), l'Agenzia per la protezione dell'ambiente americana, sono in arrivo nuove regole che minacciano di far chiudere un bel po' di centrali a carbone: a rischio impianti per un totale di 50-70 GW. Una frenata brusca per questa fonte che fornisce circa metà della produzione elettrica statunitense e che ha un peso enorme in termini di emissioni e inquinamento

A colpire le centrali non sarà tanto la possibilità - contestata politicamente e dal destino non ancora certo - che l'EPA regolamenti le emissioni di anidride carbonica, cosa che impedirebbe di costruire centrali senza cattura della CO2, bensì altre norme già sul piatto dell'Agenzia. Regole che porranno standard più severi per inquinanti diffusi dalla combustione del carbone come mercurio, diossido di zolfo e altre sostanze tossiche. Norme che inoltre potranno obbligare a trattare con più rigore lo smaltimento delle ceneri del carbone, normeranno l'uso dell'acqua negli impianti e potrebbero anche imporre l'adozione di torri di raffreddamento per proteggere gli ecosistemi dalle temperature delle acque scaricate dalle centrali (su Grist.org un esaustivo dossier sulla questione).

Novità che spaventano alquanto l'industria del carbone: sono già diversi i report che quantificano l'impatto delle nuove regole. Per uno studio di FBR Capital Markets, ripreso da Reuter, a seconda del prezzo del gas naturale (sostituto ideale del carbone), entro il 2015 potrebbero essere fermate centrali per 30-70 GW di potenza. Secondo un'altra società di consulenza, Brattle Group, le nuove regole comporterebbero per l'industria investimenti fino a 180 miliardi di dollari e farebbero fermare impianti a carbone per 50 GW. Se poi passasse anche l'obbligo di dotarsi di torri di raffreddamento questo comporterebbe uno stop per altri 11-12 GW di impianti e altri 30-50 miliardi di investimenti. A chiudere poi non sarebbero solo le centrali piccole o “in età pensionabile”: un terzo di quelle che si fermeranno, secondo le previsioni, avranno meno di 40 anni e saranno di taglia superiore ai 500 MW.

Al 2020 le regole dell'EPA potrebbero nel complesso far calare del 15% la domanda di carbone (sostituita in parte da un aumento del 10% di quella di gas naturale) e comporterebbero una riduzione di emissioni di CO2 pari a 150 milioni di tonnellate (Mt). Un taglio abbastanza sostanzioso: pari ad un terzo delle emissioni del nostro paese (456,4 Mt circa al 2007) e consistente anche se rapportato alle emissioni totali degli Usa (5.838 Mt circa al 2007). E a ringraziare non sarà solo il clima: il tributo che gli Usa pagano attualmente al carbone è alto anche in quanto a danni sanitari. Un recente studio di Clean Air Task Force (qui in pdf) stima che l'inquinamento atmosferico delle centrali a carbone nel 2010 farà morire prematuramente circa 13mila statunitensi e causerà un danno di 100 miliardi di dollari.

Insomma, dall'Agenzia per la protezione ambientale – e non dagli eletti – arriva uno dei colpi più duri alle emissioni di CO2 e all'inquinamento negli Stati Uniti. Intanto, come anticipavamo, il Senato, ha votato una legge che, se non particolarmente coraggiosa, consente almeno al mondo dell'energia pulita statunitense di stare tranquillo per un altro anno. Con un provvedimento approvato nei giorni scorsi infatti sono stati prorogati una serie di incentivi fondamentali per le rinnovabili statunitensi. In particolare continuerà il "Section 1603 Treasury cash grant", introdotto con il pacchetto stimolo del 2009, che sostituisce con un finanziamento "cash" quello che prima era uno sgravio fiscale del 30% sulla costruzione di impianti a rinnovabili: una misura che ha avuto un ruolo fondamentale nel difendere il settore dalla stretta creditizia.

Leggi tutto il post...

12 dicembre 2010

Dopo il "Cancun Act", tutto come prima?

Dopo il falso successo del vertice di Cancun, qualche news dal mondo sulle nuove politiche. Nell'ordine:

  • A Cancun raggiunto un accordo "di mediazione" sul clima.
  • Congresso di Cancun: la svolta della Cina? Un errore di traduzione
  • India favorevole a standard vincolanti per emissioni Co2


A Cancun raggiunto un accordo "di mediazione" sul clima. Sarà la base per la Conferenza di Durban del 2011 (Greenme)
Dopo due settimane di negoziati, dalla 16ma Conferenza ONU sul clima di Cancun che si è conclusa ieri notte (stamattina se consideriamo l'orario italiano), i 194 rappresentanti dei governi di tutto il mondo tornano a casa con la consapevolezza di aver gettato le basi per giungere ad un accordo vincolante contro i cambiamenti climatici. Le 32 pagine, composte da sette capitoli, firmate dai grandi della Terra, infatti, fissano gli obiettivi a lungo termine tra cui un fondo verde e il riconoscimento della scienza per fermare il riscaldamento a 2 gradi.

L'accordo, per niente scontato anche se non vincolante, già è stato ribattezzato dai media “pacchetto di Cancun” o "Cancun Act" e, rispetto a quello uscito dal vertice di Copenhagen dello scorso anno, ha intorno a sé un aurea di speranza in quanto rappresenta un punto di partenza concreto per gli ulteriori negoziati del prossimo anno che si svolgeranno in occasione della Conferenza di Durban in Sudafrica (Cop17).

“Dopo Copenhagen i governi sono venuti a Cancun con le ossa rotte ed esposti alla pressione pubblica per l’avvio di iniziative sui cambiamenti climatici – ha commentato Mariagrazia Midulla responsabile clima WWF Italia - Si sperava che Cancun avrebbe potuto stabilire una piattaforma per garantire dei progressi e ora i paesi stanno lasciando la conferenza con un rinnovato senso di buona volontà e obiettivi più concreti.”

Rispetto a Copenhagen, infatti, l'accordo messicano che è stato rifiutato solamente dal capo negoziatore boliviano Pablo Solon, ma approvato comunque dalla presidente Espinosa appellandosi alla clausola che “basta il consenso, non l'unanimità”, è un “pacchetto bilanciato” dove viene ribadita la necessità di far continuare il Protocollo di Kyoto anche dopo la sua scadenza naturale fissata al 2012, ma anche stabilito che i paesi aderenti dovranno impegnarsi a tagliare le loro emissioni di CO2 da un minimo del 25 ad un massimo del 40%. Inoltre nel pacchetto di decisioni è previsto anche il finanziamento a breve termine di 30 miliardi di dollari – 410 milioni messi sul tavolo dall'Italia – per i Paesi in via di sviluppo nel periodo 2010-2013 oltre che ribadito il fondo di 100 miliardi di dollari l'anno (Green climate fund) per far decollare la green economy nel mondo gestito per tre anni dalla Banca mondiale e da 40 Paesi membri (25 emergenti e 15 industrializzati).

"Questo pacchetto di decisioni contiene notevoli passi in avanti di cui abbiamo bisogno – ha commentato a caldo Wendel Trio, direttore di Greenpeace International Climate Policy - anche se non è perfetto. In particolare va apprezzato l'istituzione del fondo per il clima, i progressi in materia di trasparenza, e la conferma che i paesi sviluppati come gli Stati Uniti devono ridurre le loro emissioni".

“Pur non essendo riusciti a decidere per una seconda fase del Protocollo di Kyoto, è stato avviato un processo che consentirà di farlo l’anno prossimo a Durban. - continua Midulla - Tuttavia permangono difficoltà gravi con i paesi contrari e cioè Giappone e Russia, che ora saranno esposti a pressioni crescenti perché si uniscano alla comunità globale nel rinnovo del Protocollo di Kyoto. I paesi firmatari del Protocollo di Kyoto hanno riconosciuto in modo più fermo la necessità di ridurre le emissioni in misura compresa tra il 25 e il 40% entro il 2020 e hanno riconosciuto che i loro impegni per la riduzione delle emissioni rappresentano solo un inizio ed è necessario fare molto di più per raggiungere l’obiettivo condiviso della limitazione dell’aumento della temperatura a 2°C. Nel corso del prossimo anno dovranno tirarsi su le maniche e prepararsi a lavorare in modo duro e creativo per colmare questo divario.”

Molta parte nel trovare l'accordo è stata fatta sicuramente dalla Presidente messicana Espinoza, che è proprio il caso di dire, è riuscita a gestire e disbrogliare le questioni più “spinose”, aiutando ad avvicinare i governi. Come riporta anche il Corriere della Sera, “E’ stata Patricia Espinosa che si è andata a prendere ad uno ad uno i dissenzienti di Kyoto, a cominciare dal Giappone. E’ stata lei a convincere anche la Russia ed il Canada. Lei che si è presa le lodi, pubbliche e sperticate, di un paese affatto docile, come l’India, per bocca del suo ministro Ramesh”. “La Presidenza ha saputo creare un’atmosfera improntata all’inclusione e all’efficienza che ha aiutato in modo diretto i paesi a ritrovare fiducia nel processo UNFCCC”, commenta il WWF che rispetto alle azioni decise dal Cancun Act continua:

“I governi hanno sostenuto la creazione di un nuovo “fondo verde” globale, ma ora hanno bisogno di identificare fonti di finanziamento innovative, come un sistema di prelievi imposti al settore internazionale dei trasporti aerei e marittimi, attualmente non regolamentato, che sarebbe rivolto all’8% delle emissioni globali e simultaneamente sarebbe in grado di garantire miliardi di dollari di finanziamenti di lungo termine".“La decisione riguardante le emissioni derivanti dalla deforestazione (REDD+) non ha incluso tutto ciò che avremmo desiderato, ma garantisce una solida base per far avanzare un processo REDD credibile e per creareun’agenda per il lavoro futuro.”

Dello stesso parere anche Greenpeace: " il meccanismo REDD sarebbe un passo importante per le foreste, ma è un po 'un passo ubriaco, in quanto i paesi hanno preferito l'ambiguità alla chiarezza. Tuttavia passi in avanti sono stati fatti e questa potrebbe essere la base per una decisione tanto più forte in futuro".

“E’ ancora presto per essere ottimisti ma i risultati del vertice di Cancun sono sicuramente incoraggianti soprattutto rispetto a quelli del precedente summit di Copenaghen. - dichiara anche il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza - L’accordo sul trasferimento di tecnologie ai Paesi in Via di Sviluppo e sulla protezione delle Foreste rappresentano positivi passi avanti così come aver riconosciuto la necessità di un obiettivo di riduzione delle emissioni al 2020 tra il 25 e il 40%. Restano tuttavia dei grossi nodi da sciogliere, come la questione della ripartizione delle quote e i sistemi di verifica. Ci aspettiamo ora che l’Europa mantenga la linea tenuta fino ad oggi e che l’Italia la segua senza ulteriori indugi. Chiediamo al governo, alle imprese e ai sindaci d’intervenire con incisività nella riduzione delle emissioni. Il primo passo è rinunciare all’utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica”.

Insomma, volendo tirare le somme, si tratta di un accordo che potremmo definire “di mediazione”, in fondo non così diverso da quello raggiunto a Copenhagen che però, anche a sentire le associazioni, sembra un successo date le poche aspettative che ruotavano intorno a questa conferenza, al contrario del clima di speranze che ha accompagnato la Cop15 dello scorso anno, circondata da un'attenzione mediatica ben diversa da quella che ha caratterizzato il vertice messicano, passato praticamente nell'indifferenza di quotidiani e televisioni. Questioni di aspettative dunque? Calcolando che già da ora sono tante quelle che si stanno riversando sulla prossima conferenza di Durban in Sud Africa, tra un anno speriamo proprio di non dover scrivere la parola fallimento perché in tal caso il mondo potrebbe davvero non sopportare le conseguenze. Anche perché, poi, non si potrà più procrastinare: il Protocollo di Kyoto scadrà e il 2012 è una data troppo vicina alla parola “fine”.


Congresso di Cancun: la svolta della Cina? Un errore di traduzione (Ecologiae)
Le speranze che il congresso di Cancun potessero essere un successo sono durate appena un paio di giorni, il tempo che i delegati cinesi correggessero il tiro. La cosiddetta “svolta verde della Cina” che qualche giorno fa sembrava dover portare al prolungamento del Protocollo di Kyoto e all’impegno da parte dei Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni è stato solo un errore di traduzione.

E’ bastato che l’addetta alla traduzione dal cinese all’inglese prendesse lucciole per lanterne che immediatamente si è scatenato un polverone. Todd Stern, capo negoziatore degli Usa, aveva immediatamente capito cosa stava accadendo, ma quando cercava di spiegarlo ai giornalisti, questi erano convinti che fosse solo una tattica per prendere tempo perché la dichiarazione cinese aveva colto tutti di sorpresa, Stati Uniti compresi. Ieri purtroppo siamo tornati con i piedi per terra.

Il capo delegazione Xie Zhenua ha preso la parola e, nonostante non abbia detto apertamente che la traduzione fosse sbagliata, ha però spiegato, stavolta in inglese in modo che tutti potessero capire, la posizione del suo Paese: sì agli investimenti sulle rinnovabili, sì alla riduzione “generica” della CO2, ma nessun impegno vincolante sui numeri né limiti allo sviluppo industriale. Come in un gioco dell’oca, siamo tornati al punto di partenza.

--------

India favorevole a standard vincolanti per emissioni Co2 (Reuters)

L'India ha fornito il suo contributo ai tormentati colloqui Onu sul clima dando oggi la disponibilità ad accettare eventuali standard vincolanti per quanto riguarda le emissioni. Lo riportano alcuni quotidiani nazionali, sottolineando come il governo abbia radicalmente cambiato opinione su questo tema.

L'India, infatti, è al terzo posto nel mondo per quanto riguarda le emissioni di gas serra dopo Stati Uniti e Cina, e la rapida crescita economica, con il relativo innalzamento dei consumi, sta provocando anche un aumento della produzione di diossido di carbonio provocato dalle centrali elettriche a carbone, dai trasporti e dalle industrie.

Ma il governo aveva a lungo rifiutato di sottoporsi a standard legalmente vincolanti per quanto riguarda le emissioni, ritenendo questo tipo di accordo un danno per la crescita economica del paese.

Ma il ministro dell'Ambiente Jairam Ramesh, parlando a margine dei colloqui Onu sul clima a Cancun, ha detto che era giunto il momento per l'India di cambiare posizione accettando gli standard vincolanti all'interno di un nuovo patto sul clima.

"Dobbiamo accettare che la realtà globale sta cambiando. Il G77 sta invocando un accordo vincolante", ha detto Ramesh in un'intervista all'Hindustan TImes, facendo riferimento ai 131 stati membri del gruppo delle nazioni in via di sviluppo, di cui l'India fa parte.

"Io ho solo detto che tutti i paesi dovrebbero mirare ad obiettivi che siano vincolanti, all'interno di un'intesa appropriata", ha spiegato il ministro.

I colloqui sul clima dello scorso anno a Copenaghen si chiusero con un accordo non vincolante invece di un nuovo patto che prendesse il posto del Protocollo di Kyoto dal 2013.

Leggi tutto il post...

28 novembre 2010

Attività industriali e mutamenti climatici devasteranno il Pianeta

Le dichiarazioni dello scienziato statunitense James Hansen, docente alla Columbia University e direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. Fonte.

"Tra qualche giorno, il prossimo lunedì per l’esattezza a Cancun inizieranno i lavori del Cop16, dove 196 paesi si confronteranno su cambiamenti climatici e riscaldamento globale. Dopo il Climategate cavalcato dai climanegazionisti e poi smentito, si torna a discutere di economia, ma dal punto di vista del global warming.
Ebbene James Hansen è proprio in questi giorni a Milano (il 2 dicembre alla Rotonda della Besana) e a Roma (il 4 dicembre alla Fiera della piccola editoria) per presentare il suo libro Tempeste (per i miei nipoti) ed. Ambiente, in cui fotografa l’attuale scenario, le conseguenze e presenta anche le soluzioni.
Precisa che a Cancun:

Nei prossimi negoziati si parlerà soprattutto di meccanismi di compensazione e di finanza climatica, si parlerà di CDM, REDD+, tutti sistemi per scambiare emissioni in cambio di soldi. Tutto questo è green-washing, un inganno dipinto di verde, un tentativo per aggirare la vera questione.
Hansen è docente alla Columbia University nonché direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA: insomma è uno scienziato e ha rilasciato a Terra una intervista dove spiega quali saranno le conseguenze delle attuali scelte politico-economiche basate sull’utilizzo dei carburanti fossili. Il titolo Tempeste si riferisce agli sconvolgimenti climatici, caratterizzati appunto a violente tempeste:
Il pianeta diventerà qualcosa di completamente diverso da come lo conosciamo. Non ci sarà più calotta artica, il livello del mare si innalzerà di 75 metri e gran parte delle specie saranno estinte. Quello che non sappiamo è quanto durerà questa caotica dinamica di transizione verso un pianeta desolato. Lo scioglimento dei ghiacci e il collasso degli ecosistemi sono problemi non lineari – ciò rende difficile dire quando il collasso inizierà. Ma se continuiamo come nulla fosse, questo caos occorrerà durante la vita dei miei nipoti.
Aggiunge che spetta solo a noi comprendere la strada che abbiamo preso e invertire, perciò la rotta:
Io credo che la gente debba svegliarsi e comprendere che possiamo seguire un modello energetico differente, lasciando gran parte del carbone e petrolio bituminoso nel suolo. La giustificazione che per il nostro benessere si deve consumare ogni goccia di combustibili fossili, detto francamente, è una stronzata. Se questo fosse vero che cosa succederebbe alla fine di questo secolo, quando i combustibili fossili finiranno: il mondo cadrà in miserabile povertà? Assurdo!
E propone come soluzione una carbon tax, una tassa sulle emissioni di CO2.
Se noi creiamo una tassa sulle emissioni di CO2 e distribuiamo il ricavato al pubblico, avremo un grande piano di stimolo che renderà le energie pulite competitive sul piano economico e darà forza a una trasformazione della società verso energie a zero emissioni. I discorsi sui green jobs non hanno senso senza una carbon tax, globale e costantemente in crescita.

Leggi tutto il post...

24 novembre 2010

-20 anni alla fine del carbone cinese

Da Petrolio/Blogosfere
"Il picco del carbone cinese?
Questo è un argomento a cui non crede nessuno. Persino i più accaniti sostenitori del picco del petrolio, persino i più convinti catastrofisti sulla fine delle risorse energetiche non hanno mai osato ipotizzare un'imminente crisi del carbone. Che poi occorra considerarlo come "finito" perché inquinante come quasi nessun altra risorsa è assodato, ma di carbone ce n'è a iosa e neanche si... sprecano energie a misurarlo.

Nessuno lo fa insomma, tranne ovviamente i cinesi. Il Paese più previdente del mondo (a modo suo) sta pensando di limitare la produzione interna di carbone nel periodo 2011-2015. Il
governo è preoccupato che le riserve stiano scendendo troppo velocemente a causa di un'economia in espansione incontrollata.

La Cina vanta il 14% delle riserve mondiali di carbone, ma il suo consumo è uno stellare 47%, più del triplo, il che è insostenibile. Così il Wall Street Journal:

Anche se il limite non è stato ancora ufficialmente introdotto, la Cina non può mantenere una produzione crescente per un altro decennio. Il settore minerario è soffocato da colli di bottiglia infrastrutturali, specialmente strade e ferrovie, e le riserve di carbone più facili da estrarre sono già state sfruttate. Gli esperti cominciano a fare previsioni su quando le riserve cinesi si esauriranno: uno scenario da incubo, in un Paese dove il 70% dell'energia deriva dal carbone.

Non è facile calcolare le riserve cinesi. Ma è certo che, come per il petrolio, non tutto il carbone ha la stessa resa energetica: molti dei nuovi depositi scoperti in Mongolia, ad esempio, sono di scarsa qualità. E se anche la Cina dovesse limitare la crescita della domanda ad un 5% annuo, resterebbe senza carbone in appena 21 anni.

E' una cosa che mette i brividi, venire a sapere che il carbone cinese possa finire in un così breve lasso di tempo. Il carbone non era pressoché infinito, credevamo noi? Nulla è infinito, e tutto sembra agli sgoccioli in questa tempesta perfetta.

Leggi tutto il post...

20 novembre 2010

Italiani, consumi e ambiente: il gap culturale da colmare

L'ignoranza è la porta di servizio del malaffare nella società. Per questa l'ignoranza dei cittadini viene tutelata dalla politica come il migliore investimento.

ANSA: gli italiani ecologisti solo a chiacchiere
"Non e' un quadro propriamente edificante quello che dipinge l'Osservatorio Edison sugli italiani e l'energia nella ricerca sui 'comportamenti piu' diffusi fra le famiglie': ''abbiamo un Paese di ecologisti dichiarati che adotta comportamenti assolutamente contraddittori'' sintetizza il sociologo Enrico Finzi, curatore dell'indagine.

Gli italiani, secondo la ricerca (condotta con 1.071 interviste su un campione rappresentativo di 34,1 milioni di nostri concittadini tra i 25 e 65 anni), prediligono le fonti rinnovabili, come il solare (64%), l'eolico (63%) e l'energia idroelettrica (52%), a scapito delle fonti tradizionali come il petrolio (1,7%), il carbone (8%) e il metano (25%). La ragione principale della preferenza, in tutti e tre i casi, consiste nella maggiore 'ecologicita'' dell'energia offerta da vento, acqua e sole.

Quando pero' si passa ai comportamenti quotidiani - dall'uso delle lampadine a basso consumo al car pooling, all'utilizzo attento degli elettrodomestici - si scopre che il 38% degli italiani non adotta alcun comportamento ecosostenibile mentre il 27% si impegna ma senza troppa convinzione. ''Esiste una evidente contraddizione collettiva - commenta Finzi -, e' chiaro che la coerenza non sempre si trova sotto i cieli del Belpaese''. Eppure ci sarebbe molto da fare, dentro e fuori le mura domestiche, se e' vero che oltre il 50% degli italiani si dichiara 'energivoro' e con consumi fuori controllo. ''E questo anche se nessuno sa con esattezza quanti chilowattora consuma'', sostiene Finzi, a dimostrazione del fatto che in tema di energia siamo anche poco informati. Un elemento, questo, che emerge anche da altre passaggi dell'analisi. Ad esempio la predilezione per l'eolico e il solare, oltre che da motivazioni ambientali, viene spiegata da piu' della meta' dei 'supporter' delle due fonti rinnovabili con la motivazione che si tratta di energia ''conveniente'' (in realta' senza i sussidi vento e sole sarebbero antieconomici). Su una cosa gli italiani non pare abbiano cambiato idea: il no al nucleare. Se il 12% ritiene che possa contribuire alla sicurezza energetica del Paese, l'80% lo considera altamente pericoloso per la salute e l'ambiente.

Leggi tutto il post...