Il celeberrimo sociologo intervistato dal Foglio
"Professor Beck, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima?
Come tutti, ho pensato al popolo giapponese, a questo concatenamento di catastrofi senza precedenti: la terra che trema in modo mostruoso, lo tsunami e poi l’incidente nucleare… Poi ho pensato alle conferenze che ho tenuto in Giappone alla fine dell’anno scorso. Parlavo della società del rischio, in particolare nucleare, e confesso di essere stato sorpreso dalla reazione degli ascoltatori: trovavano che le mie tesi fossero “intellettualmente stimolanti”, ma non mi hanno preso davvero sul serio.
Perché?
Perché i giapponesi erano sicuri di sé, perché il loro ammodernamento e sviluppo sono avvenuti all’europea, a partire dalla metà del XIX secolo: la società giapponese si è individualizzata e liberata delle sue tradizioni, ha costruito uno stato previdenziale e le istituzioni incaricate di individuare i rischi e controllarli; i tecnici e le tecnologie locali sono tra le migliori al mondo. In virtù della loro perfezione tecnica e delle loro competenze, i giapponesi credevano di essersi liberati dal rischio della catastrofe nucleare, nonostante la fragilità fisica della loro isola. Al museo di Hiroshima c’è una cesura molto netta tra la bomba che ha devastato la città nel 1945 e il nucleare civile, che in Giappone non è mai stato contestato. Fino alla catastrofe, nel paese non esisteva una vera opposizione al nucleare. I giapponesi credevano al mito della sicurezza della razionalità tecnica: credevano di essere infallibili. Non si percepivano come una società del rischio, a differenza di numerosi altri paesi asiatici, in primo luogo la Corea del sud: nel corso di 15 o 20 anni, questi paesi hanno conosciuto una “compressed modernisation”, uno sviluppo supersonico che non è stato accompagnato da istituzioni in grado di gestire i rischi nati da questa modernizzazione ultrarapida.
In “La società del rischio”, lei scrive che “la società industriale produce sistematicamente condizioni che la minacciano e che mettono a repentaglio la sua stessa esistenza, potenziando e sfruttando economicamente i rischi”. Secondo lei l’incidente di Fukushima è un caso da manuale dei disastri che possono nascere dalle società del rischio?
Fukushima va oltre, temo: questa catastrofe potrebbe diventare il simbolo delle società del rischio globalizzato. Quando ho scritto “La società del rischio”, nel 1986, prima dell’incidente di Chernobyl’, il nostro orizzonte era ancora in larga misura nazionale. Parlavo della scomparsa della Foresta Nera, dei pesticidi nell’agricoltura tedesca, dell’inquinamento dei fiumi, anche se già all’epoca l’utilizzo intensivo di concimi nelle risiere in Asia aveva conseguenze nefaste anche da noi… Oggi, come sappiamo tutti, i rischi sono globalizzati, le frontiere sono scomparse, le sfide hanno raggiunto tutta l’umanità, come ad esempio i mutamenti climatici. L’incidente di Fukushima è avvenuto sotto gli occhi sconvolti del mondo intero. Abbiamo constatato tutti in diretta che i giapponesi avevano perso il controllo delle centrali. Si tratta di un momento cosmopolita che opera come una rivoluzione, con conseguenze immense per l’energia nucleare, l’energia in generale, la “sicurezza”, lo stato, la tecnica e la tecnologia. Inizia una nuova era.
Quale?
Dopo l’incidente, tutto è possibile! Credo che questa catastrofe faccia nascere una nuova nozione di rischi: i rischi legati al nucleare, che sono giganteschi, mentre dei rischi normali le società moderne hanno imparato a occuparsi. Hanno elaborato strumenti, istituzioni, meccanismi di garanzia che da due secoli a questa parte accompagnano il “progresso”: è una delle componenti del contratto sociale moderno. Con Fukushima, si precipita in una nuova dimensione. Nessuna istituzione umana è adatta a rispondere a una sfida di queste dimensioni. Le stime dei danni parlano di 235 miliardi di dollari! La radioattività può durare migliaia d’anni! Tutti i vicini del Giappone sono preoccupati, la zona d’evacuazione intorno alla centrale ormai ha raggiunto i 30 chilometri, una regione immensa per un paese di superficie e densità come quelle giapponesi. Questa catastrofe non ha frontiere, né geografiche, né sociali, né economiche, né politiche, né temporali. Niente può controbilanciarli o cancellarli. Dà un’immagine apocalittica della nostra modernità, le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare.
A cosa si può paragonare Fukushima?
Agli attentati dell’11 settembre 2001 e alla crisi finanziaria del 2008. Fratture storiche, avvenimenti complessi, senza confini e con una copertura mediatica universale, difficili da imputare a chicchessia, sia in termini di casualità, sia quanto a negligenze o responsabilità. Questi tre avvenimenti, molto ravvicinati sulla scala della Storia, dimostrano che il lato oscuro del progresso determina sempre più le controversie sociali su scala mondiale.
Anche i mutamenti climatici?
Sì, anche se sono ancora soggetti a interpretazioni diverse. I loro rischi sono ancora spesso invisibili, più diffusi dell’incidente di Fukushima o degli attacchi alle Torri gemelle di Manhattan, anche se sin d’oggi si fanno sentire, più o meno direttamente.
Quali saranno le conseguenze di Fukushima per il Giappone?
I giapponesi dovranno rivedere completamente la loro politica energetica, puntare su nuove fonti d’energia. Sarebbe un errore per il Giappone continuare a investire nel nucleare. Il Giappone si impegnerà nelle energie alternative; ne ha i mezzi tecnici e scientifici.
Ma come esattamente? Nel caso del Giappone, il solare e l’eolico non potranno mai dargli energia sufficiente nei prossimi anni…
In primo luogo, i giapponesi punteranno a risparmiare energia. Hanno ottenuto ottimi risultati in questo settore a seguito degli shock petroliferi degli anni Settanta: il consumo energetico è stabile rispetto agli anni Sessanta. Metteranno a punto anche nuove tecnologie. Detto questo, è vero che il loro problema principale è la produzione di energia. Dovranno certamente importarne dai vicini.
Da altri paesi asiatici? Dalla Cina? E’ realistico, da un punto di vista politico?
Forse non subito. Tutti gli stati sono ancora molto attaccati alla propria sovranità energetica…
Sì, è addirittura un dogma per gli stati moderni.
E’ vero, ma le cose in futuro dovranno cambiare. Le questioni energetiche dovranno essere discusse a livello mondiale. Penso per esempio al progetto Desertec: è stato lanciato da grandissimi gruppi tedeschi nel 2009 e mira, grazie a mega-centrali solari nel Sahara, ad approvvigionare di energia l’Europa. E’ molto promettente, per ragioni economiche ma anche politiche: con questo tipo di progetti ci si incammina progressivamente verso una gestione mondiale dell’energia.
Rimaniamo in Asia e in Giappone, se non le spiace.
Il grande pericolo per questa regione è che la Cina produca elettricità con nuove centrali a carbone, dopo la catastrofe di Fukushima. Queste nuove emissioni di Co2 sarebbero drammatiche per la regione. A causa dei venti, la Corea del sud già soffre molto l’inquinamento delle centrali cinesi. Quanto al Giappone, come già altri paesi, dovrà trovare un nuovo mix di energie per bilanciare l’abbandono progressivo e simultaneo, per ragioni ambientali e di sicurezza, del nucleare e del carbone. E’ una sfida colossale!
Secondo lei quindi il nucleare non ha futuro? Anche le nuove centrali EPR, la cui sicurezza pare sia ancora maggiore rispetto a quelle classiche?
Sì, penso che si tratti di una tecnologia obsoleta. Anche se la sicurezza è migliorata, nessuna centrale sarà mai infallibile. Come dimostra Fukushima, i rischi sono troppo grandi: peggio, sono più grandi di noi. Quindi è meglio non tentare il diavolo. D’altronde, non posso credere che un imprenditore, in cerca di quote di mercato e di credibilità, possa seriamente impegnare miliardi di euro nel nucleare. Sarebbe controproducente. Meglio sarà per lui investire nelle energie rinnovabili, le energie del futuro.
Sì, ma gli stati seguono una logica diversa. Sono loro i primi a promuovere il nucleare e a fare gara a presentare i loro progetti all’Aiea. Prima di Fukushima, erano in 60 a volersi dotare di impianti nucleari civili.
Sì, per ragioni di sovranità. La Francia, ad esempio, che ha puntato sul nucleare civile e militare per mantenere la propria indipendenza e il proprio “rango”. Personalmente, non faccio differenza tra nucleare civile e militare. E’ ancora più pericoloso per gli stati falliti o autoritari come il Pakistan. O per l’Iran, se il regime raggiunge i suoi fini. Nelle democrazie, anche la pressione dell’opinione pubblica sarà importante. Nei vari paesi, essa ormai è allertata e il messaggio dei tecnici e dei politici riuscirà sempre meno a raggiungere i suoi obiettivi: a forza di ripetere che le centrali sono sempre più sicure, in realtà non fanno altro che aumentare la paura dei cittadini. Tutti i paesi, i più ricchi così come i più poveri, devono oggi lavorare a un nuovo mix energetico.
Il baratro che separa gli stati più ricchi, i cui mezzi tecnologici sono infinitamente superiori, e i paesi poveri si farà ancora una volta più profondo?
Non necessariamente. Il Sahara, l’Africa, i paesi del sud a forte irraggiamento solare sono forse la nuova chiave di volta dell’approvvigionamento energetico mondiale.
Nell’attesa, il nucleare garantisce il 16 per cento della produzione di elettricità mondiale, con punte molto più alte in paesi come la Francia e il Giappone.
E’ una questione di volontà politica, di volontà di cambiare modello economico. Conoscendo i giapponesi, sono certo che prenderanno una direzione diversa e che per trovarla useranno tutti gli strumenti a loro disposizione.
In una recente intervista, Ray Kuzweil, il famoso inventore e teorico dell’high-tech americano, affermava che il sole tra 20 anni fornirà il 100 per cento del nostro fabbisogno energetico. Le sembra una prospettiva realista?
Perché no? Sottovalutiamo la creatività della modernità. Esistono sempre soluzioni tecniche. Parlavo prima del progetto Desertec. Uno dei grandi ostacoli sarà la trasmissione dell’energia del deserto ai paesi del nord. Ma sono certo che si riuscirà a costruire una nuova rete ad alta tensione. Quando l’uomo è alle strette, trova sempre qualche soluzione. E gli investimenti pubblici e privati per finanziarle.
La nostra civiltà – velocità, consumo, produttività, razionalità scientifica – è condannata? E’ la fine della religione del progresso? Possiamo seriamente prevedere un nuovo modello fondato sulla decrescita, come alcuni propongono?
Niente affatto! Non si tratta di tornare allo stato di natura o all’era pre moderna, quanto piuttosto di inventare una nuova modernità, che non sia più fondata sul nucleare e sulle energie fossili. Uscire dal nucleare non significa uscire dalla modernità! Almeno di certo non per me!
Ma il pianeta è in grado di fornire energia e nutrire sette, e presto, già nel 2050, nove miliardi di persone?
Le rispondo da sociologo: le ricchezze esistono, più che abbondanti, non c’è penuria, il problema è la condivisione, la distribuzione di queste ricchezze. Le disuguaglianze sono più grandi che mai e costituiscono ai miei occhi una bomba a orologeria. Niente di nuovo, mi dirà. Solo che, a differenza di oggi, le disuguaglianze non sono sempre state un problema politico. Gli schiavi, le donne, le minoranze di qualsiasi sorta, a tutte le latitudini, hanno sofferto delle disparità di trattamento sin dalla notte dei tempi. Queste disuguaglianze sono diventate problemi politici quando la nozione di uguaglianza è stata normata, quando abbiamo comunicato e lodato l’idea di uguaglianza. Oggi, tutto è sempre più normato. Di fatto, i rifugiati, il cui numero aumenta costantemente, trovano “giusto” venire a tentare la fortuna nei paesi del nord. Pensano di “averne diritto” anche loro.
E’ in parte la dialettica di colonizzatori e colonie?
Esatto. La metropoli vantava i meriti della colonizzazione, della sua civiltà, della sua democrazia liberale e illuminata, mentre gli indigeni hanno constatato soprattutto l’aumento della disuguaglianza, le differenze di trattamento e di stato tra colonizzatori e colonizzati; differenze che non corrispondevano in nulla ai discorsi e alle norme della metropoli. In quel momento sono cominciati i problemi.
La cancelliera Merkel ha ufficializzato che la Germania uscirà dall’atomo entro il 2022: la nevrosi del nucleare raggiunge nuovi vertici. Perché?
La Germania ha una cultura in cui la sicurezza sta al di sopra di ogni altro valore. Il maresciallo Goering al processo di Norimberga spiegava infatti che la democrazia e la libertà non erano valori della sua “Kultur”. Evidentemente, la Germania è cambiata, è diventata una democrazia moderna, ma continua a privilegiare la sicurezza. La Germania di Bismarck ha inventato lo stato assistenziale. La Repubblica democratica tedesca (Rdt) vantava la sicurezza del suo sistema economico e sociale a favore degli abitanti, di cui molti ancora oggi rimpiangono i benefici.
Questo non è legato anche ai disastri della Seconda guerra mondiale?
Certo: da allora abbiamo una cultura di previsione delle catastrofi, è un dato di fatto. Ed è legato probabilmente anche al Romanticismo, al nostro rapporto con la natura, a certi movimenti dell’inizio del XX secolo, come il Wandervögel. Il nazismo in realtà ha strumentalizzato questi sentimenti. Ma soprattutto, la società tedesca privilegia la sicurezza. Le cito due esempi contemporanei all’abbandono dell’atomo: il successo del libro di Thilo Sarrazin, che ritiene che la crescente multietnicità della società tedesca costituisca un pericolo – un bambino su quattro al di sotto dei cinque anni in Germania oggi ha doppia nazionalità; e la decisione della Germania di non votare la risoluzione 1973 dell’ONU sull’intervento armato in Libia. La Germania mette la sicurezza davanti a tutto!
Angela Merkel è simbolo di questa Germania, secondo lei?
La “banderuola dell’atomo”? Sì, sotto molti punti di vista. E’ molto pragmatica, anche prudente, e decide solo da ultima, quando tutti gli altri capi di governo si sono già pronunciati. Ed è una scienziata dell’ex Rdt. Il fatto che guidi una nazione sempre più vecchia per altro non è privo di importanza.
Non si rischia di passare da una società del rischio a una società dei tabù, della precauzione, in breve a una società della paura?
In effetti è un pericolo che incombe sulle nostre società e minaccia di paralizzarle. Questa paura, conseguenza della radicalizzazione delle società del rischio, ovvero della corsa sfrenata ai profitti e alla logica produttivista e finanziaria, molto spesso a scapito del buon senso, è già largamente strumentalizzata. In Europa, in particolare, con la crescita della nuova destra populista che avanza in tutti i paesi e a ogni tornata elettorale.
La catastrofe di Fukushima e l’impotenza del governo giapponese costituiranno un’ulteriore stangata per le democrazie sviluppate? Nutriranno il malessere e la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti eletti e delle istituzioni?
Certamente: il terrore viene dalla fascia produttiva della società. La popolazione giapponese ha appena preso coscienza del fatto che sono stati i garanti del diritto, dell’ordine, della razionalità e della democrazia a mettere in pericolo la nazione, costruendo centrali nucleari in una zona molto esposta ai rischi sismici. Fukushima dimostra che in caso di catastrofe di grande ampiezza – una delle manifestazioni della società del rischio globalizzato – è possibile che non vi siano istituzioni capaci di garantire l’ordine sociale e la struttura culturale e politica di un paese. D’altronde, la crescita dei rischi globali e il processo con cui i governi e i loro amministrati ne prendono coscienza costituiscono un altro pericolo per le democrazie, perché questi ultimi potrebbero essere tentati di trovare soluzioni politiche non democratiche. Prendiamo ad esempio il caso dei mutamenti climatici: le democrazie europee hanno difficoltà a trovare posizioni comuni proprio in virtù del loro carattere democratico. Non riusciamo a metterci d’accordo e per questo non siamo stati in grado di far sentire la nostra voce al vertice di Copenaghen a fine 2009. Uno stato come la Cina non si fa carico di questo genere di sottigliezze: il governo decide in modo autoritario, ad esempio la sua nuova politica ambientale, che è una delle più ambiziose del mondo, indipendentemente dalle resistenze regionali. Per affrontare i rischi globali della nostra modernità sono possibili due modelli contrapposti, e l’idea di maggiore efficacia potrebbe essere allettante. E’ un nuovo scoglio che attende le nostre democrazie.
Come possono le nostre democrazie affrontare questi nuovi rischi globali?
Per rispondere a questi problemi, che hanno una dimensione nuova, bisogna cambiare paradigma e avere più fantasia. Dobbiamo creare un cosmopolitismo moderno. E’ fondamentale! Di fronte ai rischi globali – il cambiamento del clima, le questioni migratorie, le valute, il sistema finanziario – lo stato nazione non dispone né delle dimensioni né dei mezzi per trovare le soluzioni. Se non collaboriamo, scompariremo! Oggi nel mondo convivono due tendenze contrapposte: la ri-nazionalizzazione dei problemi da una parte, e dall’altra la crescita di una nuova governance mondiale, ancora in fase embrionale, incarnata dal G8 e soprattutto dal G20, congressi di Vienna non ancora istituzionalizzati… Di certo, prossimamente vedranno la luce nuove istituzioni transnazionali.
Lei ha parlato anche di una nuova governance mondiale dell’energia.
Sì, l’energia è tipicamente un campo dove solo la cooperazione internazionale permetterà di risolvere i rischi globali. E’ indispensabile una forma di collaborazione tra stati ma anche con le imprese multinazionali, giganti privati dell’energia che sempre più svolgono un ruolo cruciale e dispongono di mezzi ad esso commisurati: Siemens, per esempio, che è stata tra i grandi promotori del progetto Desertec.
Crede davvero a questo neo-cosmopolitismo kantiano?
Non abbiamo scelta: o riusciamo a collaborare e a trovare soluzioni frutto di quella collaborazione, oppure affonderemo in un mondo segnato dall’impronta di Carl Schmitt, un mondo di soluzioni semplici che, a seguito delle crisi globali che ci insidiano, sarà diviso tra stati autoritari fondati su basi etniche e strutture di dominazione forti.
di Oliver Guez
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