No al carbone Alto Lazio

8 giugno 2011

Referendum: quel "servizio pubblico" che depista i cittadini

Abbiamo saputo, senza sorprenderci più di tanto, della direttiva Rai di passare sotto silenzio tutto quanto riguarda il Referendum: non parlarne è stata la parola d'ordine. Quel poco che s'è detto, è stato con parole confuse e depistanti (basti pensare allo spot, probabilmente indecifrabile per l'80% degli elettori italiani).

Ora i Tg a pochi giorni "sbagliano" persino le date in cui si vota:
"Dopo il Tg1, che domenica scorsa aveva annunciato il referendum per il "13 e 14 giugno" anche il Tg2 delle 13 ha sbagliato oggi, due volte, la data delle consultazioni.
Prima un errore della conduttrice che annuncia il voto per ''venerdì e domenica'' poi, nel servizio, ancora una volta lo slittamento della data: ''13 e 14 giugno'' invece che "12 e 13 giugno".
Fonte

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Porto Tolle, le milizie di enel in campo

Escono allo scoperto le milizie che enel sa mobilitare: dall'ex ministro Zaia, ora governatore del Veneto ("La Regione fa ricorso"), a Confindustria ("Dobbiamo agire per Porto Tolle"), alle sigle sindacali nazionali ("Sit-in dei lavoratori").


Chissà come mai non si mobilitano per le rinnovabili con la stessa energia. Eppure è lì che sta il futuro, è a spese nostre che si vuole a tutti i costi il carbone.

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7 giugno 2011

La Svizzera incontra la resistenza anti-carbone in Calabria

A quanto pare la Svizzera ha dovuto prendere atto che il carbone della sua Repower, in Italia non è il benvenuto. Seguono alcuni articoli tradotti dal tedesco, pubblicati sul principale quotidiano elvetico negli ultimi giorni (Grazie all'amico M.K. per la segnalazione e la traduzione)

La Calabria non vuole il carbone di Repower
“La Calabria non deve essere trasformata in una caldaia” dichiara il movimento „No al carbone“. Per questo è decisa ad impedire la costruzione di una centrale a carbone a Saline Joniche.
In Italia sta crescendo l’ostruzionismo contro Repower. Il complesso energetico Grigionese pianifica in Calabria, a Saline Joniche, la costruzione di una centrale a carbone con una potenza di 1320 megawatt e per questo intende investire circa 1 miliardo di Euro.
Contro questa pretesa si è organizzato in loco un gruppo d’opposizione composto da politici, imprenditori turistici e parte della popolazione. Repower vuole, malgrado tutto,  procedere. Il WWF Italia sta esaminando una procedura legale contro questo progetto.

Fonte: suedostschweiz.ch, 06.06.2011, ore 20.00 (originale in tedesco)

Repower incappa in Italia in un’accanita opposizione
Le voci critiche inerenti la costruzione di una centrale a carbone a Saline Joniche non tendono ad affievolirsi. Politici, imprenditori turistici e popolazione locale si oppongono alle intenzioni di Repower.
“Ho una figlia di 4 anni e non ho assolutamente l’intenzione di lasciarle in eredità una terra inquinata dal carbone”. Con queste parole si difende Massimo Nucera dalla Calabria contro la centrale a carbone pianificata sulla costa di Saline Joniche (v. lettera dei lettori, pag. 2). Nucera è il responsabile per il turismo della zona colpita e la sua dichiarazione di guerra si rivolge contro la grigionese Repower.

Il carbone arriva per nave.
A Saline Joniche la Repower sta pianificando, tramite la consorella SEI, la costruzione di una centrale a carbone con una potenza globale di 1320 Megawatt. Repower quantifica i costi d’investimento in circa 1 miliardo di Euro. Assieme al carbone, che per la maggior parte verrà direttamente trasportato per nave da oltremare, dovrebbe anche essere lavorata della biomassa proveniente dalla zona. L’imprenditore turistico e padre Nucera non è l’unico che si ribella ai piani di Repower.
Politici locali e regionali si sono più volte espressi contro questo investimento miliardario. Il Consiglio Regionale – paragonabile con il gran consiglio retico – ha rigettato, nel novembre 2010, con una mozione il progetto e si rimette al piano energetico regionale che proibisce esplicitamente la costruzione di centrali a carbone. La voce del Consiglio Regionale non è comunque unanime. Secondo la legislatura nazionale il verdetto ricade, per progetti di centrali a carbone superiori ai 1000 Megawatt, allo Stato Italiano. E a Roma fin ora non sono stati messi ostacoli al progetto. In ogni caso il ministero dell’ambiente ha esaminato lo scorso autunno l’impatto ambientale del progetto e in conclusione ha dato il via libera.

Movimento popolare contro il carbone
Roma è così in rotta di collisione con la popolazione regionale. Contro il progetto si è frattanto formato il movimento “No al carbone”, che con i suoi raduni riempie intere palestre. Il rimprovero principale che l’opposizione contesta a Repower è che essa non dice la verità in merito alla reale entità dell’inquinamento e che non divulga dati inerenti la quantità di sostanze nocive aeree.
Repower rigetta i rimproveri. “Eseguiamo i procedimenti in modo corretto e informiamo sui livelli delle emissioni”, dice Werner Steinmann. L’addetto stampa di Repower inoltre non crede che tutta la popolazione sia contraria alla Centrale. “Se il progetto sarà realizzato, verrà investito molto denaro. Questo è un prezioso contributo allo sviluppo della Regione”. L’area sulla quale dovrebbe essere realizzata la centrale è a tutt’oggi una zona industriale. Decenni fa qui è stata costruita un’industria chimica con annesso un porto, senza però mai essere stata messa in funzione.

Minaccia di procedure legali
In Italia ci sono tutt’ora diverse centrali a carbone in pianificazione. La protesta contro questa forma di produzione energetica è organizzata anche a livello nazionale. Da poco il movimento italiano anti-carbone ha registrato un successo. Alla fine di maggio la corte di giustizia italiana ha proibito alla Enel di sostituire nella propria centrale di Porto Tolle il combustibile (petrolio) con il carbone. Come Anita Mazzetta del WWF Canton Grigioni spiega, il WWF Italia sta esaminando anche per Saline Joniche delle procedure legali per fermare il progetto della centrale a carbone.

Una bufala affonda Repower
“Gli svizzeri di Repower gettano la spugna e rinunciano alla costruzione della centrale a carbone di Saline Joniche”, questo titola il quotidiano italiano “Repubblica” di domenica. Gli oppositori alle centrali che leggendo questa frase si sono profusi in gridi di giubilo, sono stati avventati. Come l’addetto stampa di Repower Werner Steinmann su richiesta della Südostschweiz spiega, si tratta di una bufala. “La comunicazione non ha ne capo ne coda. Repower prosegue il progetto in Saline Joniche. Un decisione finale, se il progetto verrà realizzato, non è ancora stata presa.


Fonti originali:
http://www.suedostschweiz.ch/politik/kalabrien-will-repowers-kohle-nicht
i seguenti richiedono registrazione:
http://v2.suedostschweiz.ch/epaper/pdf/blaettern_detail_fs.cfm?page=01_sogr_01_2011-06-07
http://v2.suedostschweiz.ch/epaper/pdf/blaettern_detail_fs.cfm?page=02_sogr_20_2011-06-07
http://v2.suedostschweiz.ch/epaper/pdf/blaettern_detail_fs.cfm?page=05_sogr_02_2011-06-07

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6 giugno 2011

Memento: i siti candidati a ospitare centrali nucleari (se non votiamo SI' al Referendum)

Trino Vercellese, Caorso, fra Mantova e Cremona lungo l’asta pluviale del Po, Monfalcone, Chioggia, San Benedetto del Tronto, Scarlino (Grosseto), Montalto di Castro, Borgo Sabotino (Latina), Oristano, Termoli, Mola di Bari, Scansano Ionico (Matera), Palma di Montechiaro, più (almeno) un deposito di scorie a Garigliano, fra Caserta e Latina.

Fonte: enel

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"Azienda Elettrica Ticinese senza carbone", vittoria a metà

Dopo la votazione, AET rimane nel carbone fino al 2035, ma l’azienda non potrà più fare nuovi investimenti, né direttamente né indirettamente, in questo tipo di energia tanto dannosa per l’ambiente e le persone. E questa è sicuramente una vittoria importante dei Verdi e dei partiti che sostenevano l’iniziativa. Tramite l’iniziativa “Per un’AET senza carbone” i cittadini sono riusciti a far cambiare radicalmente la politica energetica dell’Azienda Elettrica Ticinese.

Sergio Savoia, Verdi Ticino:
"Sono soddisfatto perché abbiamo messo la parola fine al carbone, perché sia l’iniziativa sia il controprogetto ne chiedevano l’uscita. Certo, noi avremmo preferito uscirne prima. Quel che conta però, è che siamo riusciti a far cambiare la strategia energetica di AET."

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5 giugno 2011

La Frasca: il tempismo perfetto dei distruttori. Mobilitazione domani alle 8,00

Il bosco costiero de La Frasca è scomodo, lo sappiamo: territorio conteso da cittadini e (mal)affaristi, è da qualche mese addirittura oggetto di un attacco mirato; un insetto infestante starebbe minando l'esistenza dei pini marittimi lungo la costa, così che le piante in queste ore vengono tagliate in gran quantità. Stiamo parlando di varie centinaia di esemplari già abbattuti, ma secondo le testimonianze dei cittadini che hanno effettuato un sopralluogo di persona, molti esemplari tra questi risultano perfettamente sani (leggi) a un'esame visivo.

Che tempismo perfetto per una infestazione, ma solo i "maligni" sospetteranno che sia stata provocata ad hoc. E quanta solerzia, nell'abbattere esemplari anche sani.

Di seguito il resoconto di Simona Ricotti:

Oggi intorno alle 15,00 io, Roberta Galletta ed un paio di frequentatrici delle Frasca abbiamo incontrato la Forestale che, su nostra segnalazione, aveva inviato la propria pattuglia in pineta. Tutti, forestale compresa, abbiamo concordato che quello in atto non può essere definito un intervento fitosanitario in quanto ha tutte le caratteristiche del disboscamento (alcune aree sono diventate un prato e gli alberi sono stati TUTTI tagliati). La Forestale non era al corrente dell'intervento e avendo trovato degli operai della ditta che lavoravano senza avere dietro alcuna autorizzazione e senza alcun piano di taglio, hanno bloccato i lavori, Lunedi mattina si recheranno di nuovo sul luogo per verificare se la ditta, come ha dichiarato il responsabile per telefono, ha tutte le autorizzazioni e documentazioni necessario e, qualora le avesse, se l'intervento è conforme all'autorizzazione. Ci hanno inoltre fatto presente che la legge forestale regionale in tali situazioni prevede il rimboschimento sostitutivo, cosa che, ad oggi, non sembra sia prevista. Anche L'assessore all'ambiente ha dichiarato di non saperne nulla e sembra che l'unico che sapesse qualcosa fosse l'assessore Pierfederici. A mio parere se anche ci fossero tutte le autorizzazioni per un intervento tanto radicale (cosa di cui dubito fortemente), la cosa risulta comunque inaccettabile anche perchè, peraltro, esistono altre modalità per debellare il parassita.
Basta leggere l'articolo linkato di seguito per comprenderlo.

http://www.bignotizie.it/news/civitavecchia/cronaca/3151-frasca-a-rischio-un-parassita-allattacco-dei-pini-.html

Sarò anche maligna...ma quello a cui stiamo assistendo è il primo di una serie di interventi per eliminare la Frasca per realizzarci terminal cina, porticcioli e quant'altro. Sta quindi a noi decidere se vogliamo permettergli di portarci via anche l'ultimo polmone verde e l'ultimo tratto di costa di civitavecchia.
Lunedì mattina alle 8,00 noi saremo lì e speriamo che quanti in questi anni hanno dichiarato di amare la Frasca e di volerla tutelare siano con noi.

Non ci resta che speare che i colpevoli dello scempio e i loro complici siano smascherati dalle autorità preposte. I cittadini non si lasceranno derubare. I parassiti più pericolosi non sono insetti ma uomini.

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Giovedì 9 giugno a Tarquinia, per 4 "sì" al Referendum


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In Italia e Germania il carbone fatica a restare nei parametri di legge

Da Ticinolibero
"Questo fine settimana sapremo infine cosa decideranno i ticinesi. Tutto è nato dalla decisione dell’Azienda elettrica ticinese (AET) di investire svariati milioni nella centrale a carbone in costruzione a Lünen, in Germania. I Verdi, appoggiati dal Partito socialista e dalla Lega dei ticinesi ha quindi deciso di lanciare un’iniziativa, “Per un’AET senza carbone”, che propone l’uscita dal carbone entro il 2015.

Il Gran Consiglio ha proposto invece un controprogetto, che propone un termine molto più lungo per l’uscita dall’investimento di Lünen, ossia il 2035, e l’istituzione di un fondo per le energie rinnovabili.

Sulla centrale tedesca, malgrado la costruzione della centrale sia ormai quasi ultimata, pende tuttavia una spada di Damocle, quella giudiziaria. Un ricorso dell’associazione “Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland” è infatti stato accolto a metà maggio dalla Corte europea, in Lussemburgo. Nulla è ancora deciso, il ricorso verteva unicamente sulla legittimità di ricorrere da parte dell’associazione, che ora potrà far valere le sue ragioni.

Al momento un’altra sentenza di tribunale della corte europea sta già impedendo da mesi la messa in funzione di un’altra centrale a carbone, quella di Datteln.

Problemi con il carbone li si riscontrano anche in Italia, dove recentemente una sentenza ha bloccato la riconversione dell’impianto di Porto Tolle, in provincia di Rovigo. È infatti stato accolto un ricorso di diverse associazioni ambientaliste e operatori turistici della zona, grazie al quale è stato annullato un decreto del Ministero dell’ambiente che dava parere positivo alla valutazione d’impatto ambientale del progetto.

Commentando la sentenza, il WWF (uno dei ricorrenti) ha voluto sottolineare che i “desolfatori” e i “denitrificatori” presenti nelle nuove centrali a carbone permettono un abbattimento soltanto parziale delle sostanze inquinanti, motivo per il quale sono da preferire le centrali a gas (il progetto prevedeva la riconversione da gas a carbone).

Sul fronte opposto l’Enel, la società che intendeva realizzare la riconversione, il governo e i sindacati, preoccupati per la sorte dei lavoratori dell’impianto. Come dire… tutta Europa è paese.

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3 giugno 2011

Miniere di carbone cinesi inghiottono altre vite umane

Ogni anno sono talmente tanti i morti nelle miniere di carbone cinesi, che a qualcuno verrà ormai facile minimizzare di fronte a tragedie umane con un solo zero.

Aggiornamento: bilancio salito a 21 morti

Da Tmnews
"Diciannove minatori sono rimasti intrappolati all'interno di due miniere (di carbone, ndr), una delle quali non autorizzata, dopo inondazione nel Sudovest della Cina. Lo riferisce l'agenzia stampa Nuova Cina.

Nella città di Guiyang, capitale della provincia di Guizhou, le squadre di soccorso sono al lavoro per cercare di salvare 11 operai bloccati da domenica scorsa in una miniera. Un corpo privo di vita è stato recuperato. In un'altra miniera, illegale, tra Guizhou e la regione autonoma di Guangxi, da 24 ore non si hanno contatti con otto minatori.

Nel 2010 almeno 2.400 persone sono morte nelle miniere della Cina, con una media di sei incidenti mortali al giorno. Queste statistiche ufficiali sono probabilmente sottostimate, secondo le organizzazioni non governative, perché numerose miniere vengono aperte senza autorizzazione e gli incidenti che avvengono al loro interno non sono denunciati."

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La Spezia: "Basta a Enel, basta al carbone"

da Cittadellaspezia.com
"Non possiamo non sottolineare l’assoluta incongruità delle integrazioni prodotte da Enel e delle prescrizioni richieste, laddove si vogliano rispettare gli impegni presi in passato da Enel e dal Comune nei confronti della città e laddove si pensi a tutelare la salute pubblica". Queste le parole delle associazioni ambientaliste (Legambiente La Spezia, Associazione Comitati Spezzini, Associazione Medici per l’Ambiente – Isde La Spezia, Italia Nostra La Spezia, Lipu La Spezia, Wwf La Spezia) a seguito dell'incontro con il Comune circa l'Autorizzazione Integrata Ambientale richiesta da Enelal vaglio della Commissione ministeriale. "Ricordiamo le garanzie che erano state date in campagna elettorale circa la dismissione della centrale, al massimo entro il 2015, da parte del sindaco Federici, l’occasione che il rinnovo dell’autorizzazione avrebbe dato, secondo lo stesso, per rimettere in discussione almeno la potenza e la tipologia dei combustibili utilizzati. Niente di tutto questo - continuano le associazioni - nelle richieste dell’amministrazione in sede di commissione IPPC, dimenticandosi forse che negli ultimi anni la nostra centrale risulta ancora essere tra le più inquinanti a livello nazionale, con un ulteriore incremento rispetto al passato dell’esercizio della sezione a carbone rispetto a quelle a turbogas, con regimi transitori che comportano un peggioramento ulteriore dei picchi di inquinanti emessi. Ancor peggio quando si consideri che la nostra città ha incidenze di diverse malattie legate all’inquinamento assai maggiori rispetto alle altre province liguri e alle medie nazionali e come è assolutamente dimostrato il prevalente ruolo delle centrali a carbone rispetto ad altre fonti di inquinamento nelle zone che ospitano tali impianti. Considerando che nella fase conclusiva dell’iter autorizzatorio il Sindaco, rivestendo il ruolo di massima autorità sanitaria del territorio, è tenuto ad emettere un parere sanitario e considerando che, al di là della concessione dell’AIA, il sindaco stesso può richiedere, secondo il DL 128 del giugno 2010, il riesame dell’autorizzazione stessa, le nostre associazioni concordano nel richiedere il mantenimento delle promesse fatte a suo tempo iniziando dall' abbandono dell’uso di carbone ed oli quali combustibili. Sottolineiamo che in termini di esigenze produttive questa richiesta è oltremodo solvibile visto che la produzione di energia elettrica è assolutamente eccedente le richieste sia a livello regionale che nazionale e considerando che la nostra centrale ha funzione puramente strategica nelle situazioni “di punta”.
Le nostre associazioni si impegnano quindi, in queste ultime battute dell’iter autorizzatorio, a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla chiara esigenza di dire Basta a Enel, basta al carbone

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1 giugno 2011

Ulrich Beck sul futuro della produzione energetica

Il celeberrimo sociologo intervistato dal Foglio
"Professor Beck, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima?
Come tutti, ho pensato al popolo giapponese, a questo concatenamento di catastrofi senza precedenti: la terra che trema in modo mostruoso, lo tsunami e poi l’incidente nucleare… Poi ho pensato alle conferenze che ho tenuto in Giappone alla fine dell’anno scorso. Parlavo della società del rischio, in particolare nucleare, e confesso di essere stato sorpreso dalla reazione degli ascoltatori: trovavano che le mie tesi fossero “intellettualmente stimolanti”, ma non mi hanno preso davvero sul serio.

Perché?

Perché i giapponesi erano sicuri di sé, perché il loro ammodernamento e sviluppo sono avvenuti all’europea, a partire dalla metà del XIX secolo: la società giapponese si è individualizzata e liberata delle sue tradizioni, ha costruito uno stato previdenziale e le istituzioni incaricate di individuare i rischi e controllarli; i tecnici e le tecnologie locali sono tra le migliori al mondo. In virtù della loro perfezione tecnica e delle loro competenze, i giapponesi credevano di essersi liberati dal rischio della catastrofe nucleare, nonostante la fragilità fisica della loro isola. Al museo di Hiroshima c’è una cesura molto netta tra la bomba che ha devastato la città nel 1945 e il nucleare civile, che in Giappone non è mai stato contestato. Fino alla catastrofe, nel paese non esisteva una vera opposizione al nucleare. I giapponesi credevano al mito della sicurezza della razionalità tecnica: credevano di essere infallibili. Non si percepivano come una società del rischio, a differenza di numerosi altri paesi asiatici, in primo luogo la Corea del sud: nel corso di 15 o 20 anni, questi paesi hanno conosciuto una “compressed modernisation”, uno sviluppo supersonico che non è stato accompagnato da istituzioni in grado di gestire i rischi nati da questa modernizzazione ultrarapida.

In “La società del rischio”, lei scrive che “la società industriale produce sistematicamente condizioni che la minacciano e che mettono a repentaglio la sua stessa esistenza, potenziando e sfruttando economicamente i rischi”. Secondo lei l’incidente di Fukushima è un caso da manuale dei disastri che possono nascere dalle società del rischio?
Fukushima va oltre, temo: questa catastrofe potrebbe diventare il simbolo delle società del rischio globalizzato. Quando ho scritto “La società del rischio”, nel 1986, prima dell’incidente di Chernobyl’, il nostro orizzonte era ancora in larga misura nazionale. Parlavo della scomparsa della Foresta Nera, dei pesticidi nell’agricoltura tedesca, dell’inquinamento dei fiumi, anche se già all’epoca l’utilizzo intensivo di concimi nelle risiere in Asia aveva conseguenze nefaste anche da noi… Oggi, come sappiamo tutti, i rischi sono globalizzati, le frontiere sono scomparse, le sfide hanno raggiunto tutta l’umanità, come ad esempio i mutamenti climatici. L’incidente di Fukushima è avvenuto sotto gli occhi sconvolti del mondo intero. Abbiamo constatato tutti in diretta che i giapponesi avevano perso il controllo delle centrali. Si tratta di un momento cosmopolita che opera come una rivoluzione, con conseguenze immense per l’energia nucleare, l’energia in generale, la “sicurezza”, lo stato, la tecnica e la tecnologia. Inizia una nuova era.

Quale?
Dopo l’incidente, tutto è possibile! Credo che questa catastrofe faccia nascere una nuova nozione di rischi: i rischi legati al nucleare, che sono giganteschi, mentre dei rischi normali le società moderne hanno imparato a occuparsi. Hanno elaborato strumenti, istituzioni, meccanismi di garanzia che da due secoli a questa parte accompagnano il “progresso”: è una delle componenti del contratto sociale moderno. Con Fukushima, si precipita in una nuova dimensione. Nessuna istituzione umana è adatta a rispondere a una sfida di queste dimensioni. Le stime dei danni parlano di 235 miliardi di dollari! La radioattività può durare migliaia d’anni! Tutti i vicini del Giappone sono preoccupati, la zona d’evacuazione intorno alla centrale ormai ha raggiunto i 30 chilometri, una regione immensa per un paese di superficie e densità come quelle giapponesi. Questa catastrofe non ha frontiere, né geografiche, né sociali, né economiche, né politiche, né temporali. Niente può controbilanciarli o cancellarli. Dà un’immagine apocalittica della nostra modernità, le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare.

A cosa si può paragonare Fukushima?
Agli attentati dell’11 settembre 2001 e alla crisi finanziaria del 2008. Fratture storiche, avvenimenti complessi, senza confini e con una copertura mediatica universale, difficili da imputare a chicchessia, sia in termini di casualità, sia quanto a negligenze o responsabilità. Questi tre avvenimenti, molto ravvicinati sulla scala della Storia, dimostrano che il lato oscuro del progresso determina sempre più le controversie sociali su scala mondiale.

Anche i mutamenti climatici?
Sì, anche se sono ancora soggetti a interpretazioni diverse. I loro rischi sono ancora spesso invisibili, più diffusi dell’incidente di Fukushima o degli attacchi alle Torri gemelle di Manhattan, anche se sin d’oggi si fanno sentire, più o meno direttamente.
Quali saranno le conseguenze di Fukushima per il Giappone?
I giapponesi dovranno rivedere completamente la loro politica energetica, puntare su nuove fonti d’energia. Sarebbe un errore per il Giappone continuare a investire nel nucleare. Il Giappone si impegnerà nelle energie alternative; ne ha i mezzi tecnici e scientifici.

Ma come esattamente? Nel caso del Giappone, il solare e l’eolico non potranno mai dargli energia sufficiente nei prossimi anni…

In primo luogo, i giapponesi punteranno a risparmiare energia. Hanno ottenuto ottimi risultati in questo settore a seguito degli shock petroliferi degli anni Settanta: il consumo energetico è stabile rispetto agli anni Sessanta. Metteranno a punto anche nuove tecnologie. Detto questo, è vero che il loro problema principale è la produzione di energia. Dovranno certamente importarne dai vicini.

Da altri paesi asiatici? Dalla Cina? E’ realistico, da un punto di vista politico?
Forse non subito. Tutti gli stati sono ancora molto attaccati alla propria sovranità energetica…
Sì, è addirittura un dogma per gli stati moderni.
E’ vero, ma le cose in futuro dovranno cambiare. Le questioni energetiche dovranno essere discusse a livello mondiale. Penso per esempio al progetto Desertec: è stato lanciato da grandissimi gruppi tedeschi nel 2009 e mira, grazie a mega-centrali solari nel Sahara, ad approvvigionare di energia l’Europa. E’ molto promettente, per ragioni economiche ma anche politiche: con questo tipo di progetti ci si incammina progressivamente verso una gestione mondiale dell’energia.

Rimaniamo in Asia e in Giappone, se non le spiace.
Il grande pericolo per questa regione è che la Cina produca elettricità con nuove centrali a carbone, dopo la catastrofe di Fukushima. Queste nuove emissioni di Co2 sarebbero drammatiche per la regione. A causa dei venti, la Corea del sud già soffre molto l’inquinamento delle centrali cinesi. Quanto al Giappone, come già altri paesi, dovrà trovare un nuovo mix di energie per bilanciare l’abbandono progressivo e simultaneo, per ragioni ambientali e di sicurezza, del nucleare e del carbone. E’ una sfida colossale!

Secondo lei quindi il nucleare non ha futuro? Anche le nuove centrali EPR, la cui sicurezza pare sia ancora maggiore rispetto a quelle classiche?
Sì, penso che si tratti di una tecnologia obsoleta. Anche se la sicurezza è migliorata, nessuna centrale sarà mai infallibile. Come dimostra Fukushima, i rischi sono troppo grandi: peggio, sono più grandi di noi. Quindi è meglio non tentare il diavolo. D’altronde, non posso credere che un imprenditore, in cerca di quote di mercato e di credibilità, possa seriamente impegnare miliardi di euro nel nucleare. Sarebbe controproducente. Meglio sarà per lui investire nelle energie rinnovabili, le energie del futuro.

Sì, ma gli stati seguono una logica diversa. Sono loro i primi a promuovere il nucleare e a fare gara a presentare i loro progetti all’Aiea. Prima di Fukushima, erano in 60 a volersi dotare di impianti nucleari civili.
Sì, per ragioni di sovranità. La Francia, ad esempio, che ha puntato sul nucleare civile e militare per mantenere la propria indipendenza e il proprio “rango”. Personalmente, non faccio differenza tra nucleare civile e militare. E’ ancora più pericoloso per gli stati falliti o autoritari come il Pakistan. O per l’Iran, se il regime raggiunge i suoi fini. Nelle democrazie, anche la pressione dell’opinione pubblica sarà importante. Nei vari paesi, essa ormai è allertata e il messaggio dei tecnici e dei politici riuscirà sempre meno a raggiungere i suoi obiettivi: a forza di ripetere che le centrali sono sempre più sicure, in realtà non fanno altro che aumentare la paura dei cittadini. Tutti i paesi, i più ricchi così come i più poveri, devono oggi lavorare a un nuovo mix energetico.

Il baratro che separa gli stati più ricchi, i cui mezzi tecnologici sono infinitamente superiori, e i paesi poveri si farà ancora una volta più profondo?
Non necessariamente. Il Sahara, l’Africa, i paesi del sud a forte irraggiamento solare sono forse la nuova chiave di volta dell’approvvigionamento energetico mondiale.
Nell’attesa, il nucleare garantisce il 16 per cento della produzione di elettricità mondiale, con punte molto più alte in paesi come la Francia e il Giappone.
E’ una questione di volontà politica, di volontà di cambiare modello economico. Conoscendo i giapponesi, sono certo che prenderanno una direzione diversa e che per trovarla useranno tutti gli strumenti a loro disposizione.

In una recente intervista, Ray Kuzweil, il famoso inventore e teorico dell’high-tech americano, affermava che il sole tra 20 anni fornirà il 100 per cento del nostro fabbisogno energetico. Le sembra una prospettiva realista?
Perché no? Sottovalutiamo la creatività della modernità. Esistono sempre soluzioni tecniche. Parlavo prima del progetto Desertec. Uno dei grandi ostacoli sarà la trasmissione dell’energia del deserto ai paesi del nord. Ma sono certo che si riuscirà a costruire una nuova rete ad alta tensione. Quando l’uomo è alle strette, trova sempre qualche soluzione. E gli investimenti pubblici e privati per finanziarle.

La nostra civiltà – velocità, consumo, produttività, razionalità scientifica – è condannata? E’ la fine della religione del progresso? Possiamo seriamente prevedere un nuovo modello fondato sulla decrescita, come alcuni propongono?
Niente affatto! Non si tratta di tornare allo stato di natura o all’era pre moderna, quanto piuttosto di inventare una nuova modernità, che non sia più fondata sul nucleare e sulle energie fossili. Uscire dal nucleare non significa uscire dalla modernità! Almeno di certo non per me!

Ma il pianeta è in grado di fornire energia e nutrire sette, e presto, già nel 2050, nove miliardi di persone?
Le rispondo da sociologo: le ricchezze esistono, più che abbondanti, non c’è penuria, il problema è la condivisione, la distribuzione di queste ricchezze. Le disuguaglianze sono più grandi che mai e costituiscono ai miei occhi una bomba a orologeria. Niente di nuovo, mi dirà. Solo che, a differenza di oggi, le disuguaglianze non sono sempre state un problema politico. Gli schiavi, le donne, le minoranze di qualsiasi sorta, a tutte le latitudini, hanno sofferto delle disparità di trattamento sin dalla notte dei tempi. Queste disuguaglianze sono diventate problemi politici quando la nozione di uguaglianza è stata normata, quando abbiamo comunicato e lodato l’idea di uguaglianza. Oggi, tutto è sempre più normato. Di fatto, i rifugiati, il cui numero aumenta costantemente, trovano “giusto” venire a tentare la fortuna nei paesi del nord. Pensano di “averne diritto” anche loro.

E’ in parte la dialettica di colonizzatori e colonie?
Esatto. La metropoli vantava i meriti della colonizzazione, della sua civiltà, della sua democrazia liberale e illuminata, mentre gli indigeni hanno constatato soprattutto l’aumento della disuguaglianza, le differenze di trattamento e di stato tra colonizzatori e colonizzati; differenze che non corrispondevano in nulla ai discorsi e alle norme della metropoli. In quel momento sono cominciati i problemi.

La cancelliera Merkel ha ufficializzato che la Germania uscirà dall’atomo entro il 2022: la nevrosi del nucleare raggiunge nuovi vertici. Perché?
La Germania ha una cultura in cui la sicurezza sta al di sopra di ogni altro valore. Il maresciallo Goering al processo di Norimberga spiegava infatti che la democrazia e la libertà non erano valori della sua “Kultur”. Evidentemente, la Germania è cambiata, è diventata una democrazia moderna, ma continua a privilegiare la sicurezza. La Germania di Bismarck ha inventato lo stato assistenziale. La Repubblica democratica tedesca (Rdt) vantava la sicurezza del suo sistema economico e sociale a favore degli abitanti, di cui molti ancora oggi rimpiangono i benefici.

Questo non è legato anche ai disastri della Seconda guerra mondiale?
Certo: da allora abbiamo una cultura di previsione delle catastrofi, è un dato di fatto. Ed è legato probabilmente anche al Romanticismo, al nostro rapporto con la natura, a certi movimenti dell’inizio del XX secolo, come il Wandervögel. Il nazismo in realtà ha strumentalizzato questi sentimenti. Ma soprattutto, la società tedesca privilegia la sicurezza. Le cito due esempi contemporanei all’abbandono dell’atomo: il successo del libro di Thilo Sarrazin, che ritiene che la crescente multietnicità della società tedesca costituisca un pericolo – un bambino su quattro al di sotto dei cinque anni in Germania oggi ha doppia nazionalità; e la decisione della Germania di non votare la risoluzione 1973 dell’ONU sull’intervento armato in Libia. La Germania mette la sicurezza davanti a tutto!

Angela Merkel è simbolo di questa Germania, secondo lei?
La “banderuola dell’atomo”? Sì, sotto molti punti di vista. E’ molto pragmatica, anche prudente, e decide solo da ultima, quando tutti gli altri capi di governo si sono già pronunciati. Ed è una scienziata dell’ex Rdt. Il fatto che guidi una nazione sempre più vecchia per altro non è privo di importanza.

Non si rischia di passare da una società del rischio a una società dei tabù, della precauzione, in breve a una società della paura?
In effetti è un pericolo che incombe sulle nostre società e minaccia di paralizzarle. Questa paura, conseguenza della radicalizzazione delle società del rischio, ovvero della corsa sfrenata ai profitti e alla logica produttivista e finanziaria, molto spesso a scapito del buon senso, è già largamente strumentalizzata. In Europa, in particolare, con la crescita della nuova destra populista che avanza in tutti i paesi e a ogni tornata elettorale.

La catastrofe di Fukushima e l’impotenza del governo giapponese costituiranno un’ulteriore stangata per le democrazie sviluppate? Nutriranno il malessere e la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti eletti e delle istituzioni?
Certamente: il terrore viene dalla fascia produttiva della società. La popolazione giapponese ha appena preso coscienza del fatto che sono stati i garanti del diritto, dell’ordine, della razionalità e della democrazia a mettere in pericolo la nazione, costruendo centrali nucleari in una zona molto esposta ai rischi sismici. Fukushima dimostra che in caso di catastrofe di grande ampiezza – una delle manifestazioni della società del rischio globalizzato – è possibile che non vi siano istituzioni capaci di garantire l’ordine sociale e la struttura culturale e politica di un paese. D’altronde, la crescita dei rischi globali e il processo con cui i governi e i loro amministrati ne prendono coscienza costituiscono un altro pericolo per le democrazie, perché questi ultimi potrebbero essere tentati di trovare soluzioni politiche non democratiche. Prendiamo ad esempio il caso dei mutamenti climatici: le democrazie europee hanno difficoltà a trovare posizioni comuni proprio in virtù del loro carattere democratico. Non riusciamo a metterci d’accordo e per questo non siamo stati in grado di far sentire la nostra voce al vertice di Copenaghen a fine 2009. Uno stato come la Cina non si fa carico di questo genere di sottigliezze: il governo decide in modo autoritario, ad esempio la sua nuova politica ambientale, che è una delle più ambiziose del mondo, indipendentemente dalle resistenze regionali. Per affrontare i rischi globali della nostra modernità sono possibili due modelli contrapposti, e l’idea di maggiore efficacia potrebbe essere allettante. E’ un nuovo scoglio che attende le nostre democrazie.

Come possono le nostre democrazie affrontare questi nuovi rischi globali?
Per rispondere a questi problemi, che hanno una dimensione nuova, bisogna cambiare paradigma e avere più fantasia. Dobbiamo creare un cosmopolitismo moderno. E’ fondamentale! Di fronte ai rischi globali – il cambiamento del clima, le questioni migratorie, le valute, il sistema finanziario – lo stato nazione non dispone né delle dimensioni né dei mezzi per trovare le soluzioni. Se non collaboriamo, scompariremo! Oggi nel mondo convivono due tendenze contrapposte: la ri-nazionalizzazione dei problemi da una parte, e dall’altra la crescita di una nuova governance mondiale, ancora in fase embrionale, incarnata dal G8 e soprattutto dal G20, congressi di Vienna non ancora istituzionalizzati… Di certo, prossimamente vedranno la luce nuove istituzioni transnazionali.

Lei ha parlato anche di una nuova governance mondiale dell’energia.
Sì, l’energia è tipicamente un campo dove solo la cooperazione internazionale permetterà di risolvere i rischi globali. E’ indispensabile una forma di collaborazione tra stati ma anche con le imprese multinazionali, giganti privati dell’energia che sempre più svolgono un ruolo cruciale e dispongono di mezzi ad esso commisurati: Siemens, per esempio, che è stata tra i grandi promotori del progetto Desertec.

Crede davvero a questo neo-cosmopolitismo kantiano?
Non abbiamo scelta: o riusciamo a collaborare e a trovare soluzioni frutto di quella collaborazione, oppure affonderemo in un mondo segnato dall’impronta di Carl Schmitt, un mondo di soluzioni semplici che, a seguito delle crisi globali che ci insidiano, sarà diviso tra stati autoritari fondati su basi etniche e strutture di dominazione forti.

di Oliver Guez

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